“VOLEVO FARE IL GIORNALISTA”. POESIE, RIFLESSIONI E REALTA’ NEL LIBRO DI GIUSEPPE DI MATTEO

Volevo fare il giornalista.
Ogni giorno
mi tocca vendere l’anima
per due parole
che non hanno valore
(tratto da “Volevo fare il giornalista” di Giuseppe Di Matteo)

Alcuni lo definiscono il mestiere più bello del mondo e altri ne vengono attratti grazie ai film che celebrano le gesta dei big della stampa: il giornalismo in realtà è duro, è lotta, è un mondo difficile, a volte impossibile, nel quale vivere e lavorare. Giuseppe Di Matteo, classe 1983, ha al suo attivo diverse raccolte di poesie e un lungo curriculum in varie redazioni. “Volevo fare il giornalista” (2023, 4 Punte Edizioni), è l’ultima opera del giornalista e poeta pugliese; una raccolta di poesie brevi ma potenti che rappresentano situazioni vissute dall’autore, “un atto di accusa in versi” nei confronti di un mestiere a suo avviso “sempre più schiavile”. Grazie alla scrittura incisiva, scabra, essenziale, il libro si legge velocemente e altrettanto velocemente si rilegge, perché i componimenti sembrano dilatarsi ad ogni nuova lettura, liberando i significati racchiusi nei versi. Il libro, disponibile sui maggiori canali di distribuzione, è stato illustrato da Liliana Carone.

La copertina del libro

“Volevo fare il giornalista” (4 Punte Edizioni) è il titolo del suo ultimo libro. Sembra suonare molto provocatorio, soprattutto nei tempi attuali, dove gli attacchi alla professione sono molti. È così?“.

“In realtà non è affatto provocatorio e nemmeno tanto allusivo: sono un giornalista professionista da quasi dieci anni, ma non riesco a farlo come vorrei. Colpa soprattutto della precarietà che ormai è l’anima più profonda di questo mestiere. Per quanto riguarda gli attacchi alla professione, il primo non viene dai suoi nemici, è un fuoco amico. Alludo al modo in cui la professione sta cambiando per volontà di chi la esercita: ci si sta allontanando dal giornalismo di qualità, che era anzitutto un gioco di squadra, per inseguire altre logiche. Il racconto del mondo e della realtà viene quotidianamente sostituiti da un chiacchiericcio spacciato per cronaca: un’assurdità. La continua ricerca del sensazionalismo è un altro veleno che sta inquinando non poco quello che, a mio avviso a torto, viene considerato il mestiere più bello del mondo”.

Cosa salva del giornalismo attuale?

“La sua missione, che è la ricerca della verità. Ma anche l’opportunità che esso regala, e cioè raccontare il mondo. Lo si può fare in molti modi: io, per esempio, amo scrivere di attualità e cultura. Presto però l’arcobaleno scompare, per tanti motivi. Anzitutto perché ormai il giornalismo è un mestiere sempre più schiavile: tolti i privilegiati e i divi televisivi, gli altri fanno la fame o vivono tra mille difficoltà. Non si assume praticamente più, e quando lo si fa il talento non è quasi mai l’elemento più importante: spesso contano il nome che hai e le relazioni che puoi offrire. In secundis, il giornalismo è un mestiere feudale. Esistono infatti i proprietari terrieri degli spazi e degli argomenti: il che significa mettersi in fila per anni per ottenere al massimo un osso rosicchiato. Non parliamo poi dei compensi. Molti collaboratori esterni vengono pagati pochissimo: eppure sono loro che mandano avanti la baracca. Ma ci sono anche altri problemi. Il giornalismo è diventato un mestiere terribilmente impiegatizio: chi lavora in redazione spesso passa il suo tempo a passare i pezzi degli altri, a titolare e a riempire boxini; non si esce più, salvo lodevoli eccezioni; si è incatenati alle notizie d’agenzia e al web. Ma il giornalismo più vero e autentico è quello che ti permette anzitutto di parlare con le persone, di vedere e riferire.

A mio avviso, comunque, giornalismo più bello è quello che si fa in radio, dove non si è schiavi delle immagini e conta la forza della parola. Anche la carta stampata ha un suo fascino un po’ per lo stesso motivo; poi c’è l’oceano del web, che potrebbe essere uno spazio interessante ma spesso viene riempito di contenuti pessimi o banali; il giornalismo televisivo non mi piace per niente, anche perché in molti casi non racconta nulla se non l’ego smisurato del giornalista. Ovviamente salvo lodevoli eccezioni”.

Il libro è molto diretto, crudo, vero. Quali sono state le sue emozioni durante la stesura?

“Non è stato semplice lavorare alla stesura di questo libro. Non è un’autobiografia poetica, ci tengo a precisarlo, ma ovviamente c’è tanto del mio vissuto personale. So di cosa parlo, non mi sono inventato nulla. Ho tra l’altro raccolto nel libro un triste patrimonio di esperienze comuni di cui nessuno parla. Precarietà e stipendi da fame sono il pane quotidiano di tanti giornalisti che vivono del proprio lavoro e basta, senza inseguire la celebrità o patetici occhi di bue. I miei frammenti, ai quali mi auguro di aver conferito un minimo di sostanza poetica, sono dedicati non a caso ai miei compagni di sventura. Non poche volte ho avuto la tentazione di mollare, anche perché il mio è sostanzialmente il racconto di chi non ce l’ha fatta. E tuttavia è un racconto intellettualmente onesto, non un piagnisteo. Infatti, pur tra mille difficoltà e anche se ho scelto di provare la carriera dell’insegnamento, continuo a scrivere. Ho un tesserino da giornalista professionista: non rinuncio tanto facilmente a esercitare una professione alla quale ho dedicato, e dedico ancora, lacrime e passione”.

Scrittura come liberazione o libertà di scrittura?

«Direi più la prima, e mi piace citare non a caso la parte finale di una delle poesie più belle di Franco Fortini: “Nulla è sicuro, ma scrivi”.

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