5 Ottobre 2023

POESIE

“VOLEVO FARE IL GIORNALISTA”. POESIE, RIFLESSIONI E REALTA’ NEL LIBRO DI GIUSEPPE DI MATTEO

Volevo fare il giornalista.
Ogni giorno
mi tocca vendere l’anima
per due parole
che non hanno valore
(tratto da “Volevo fare il giornalista” di Giuseppe Di Matteo)

Alcuni lo definiscono il mestiere più bello del mondo e altri ne vengono attratti grazie ai film che celebrano le gesta dei big della stampa: il giornalismo in realtà è duro, è lotta, è un mondo difficile, a volte impossibile, nel quale vivere e lavorare. Giuseppe Di Matteo, classe 1983, ha al suo attivo diverse raccolte di poesie e un lungo curriculum in varie redazioni. “Volevo fare il giornalista” (2023, 4 Punte Edizioni), è l’ultima opera del giornalista e poeta pugliese; una raccolta di poesie brevi ma potenti che rappresentano situazioni vissute dall’autore, “un atto di accusa in versi” nei confronti di un mestiere a suo avviso “sempre più schiavile”. Grazie alla scrittura incisiva, scabra, essenziale, il libro si legge velocemente e altrettanto velocemente si rilegge, perché i componimenti sembrano dilatarsi ad ogni nuova lettura, liberando i significati racchiusi nei versi. Il libro, disponibile sui maggiori canali di distribuzione, è stato illustrato da Liliana Carone.

La copertina del libro

“Volevo fare il giornalista” (4 Punte Edizioni) è il titolo del suo ultimo libro. Sembra suonare molto provocatorio, soprattutto nei tempi attuali, dove gli attacchi alla professione sono molti. È così?“.

“In realtà non è affatto provocatorio e nemmeno tanto allusivo: sono un giornalista professionista da quasi dieci anni, ma non riesco a farlo come vorrei. Colpa soprattutto della precarietà che ormai è l’anima più profonda di questo mestiere. Per quanto riguarda gli attacchi alla professione, il primo non viene dai suoi nemici, è un fuoco amico. Alludo al modo in cui la professione sta cambiando per volontà di chi la esercita: ci si sta allontanando dal giornalismo di qualità, che era anzitutto un gioco di squadra, per inseguire altre logiche. Il racconto del mondo e della realtà viene quotidianamente sostituiti da un chiacchiericcio spacciato per cronaca: un’assurdità. La continua ricerca del sensazionalismo è un altro veleno che sta inquinando non poco quello che, a mio avviso a torto, viene considerato il mestiere più bello del mondo”.

Cosa salva del giornalismo attuale?

“La sua missione, che è la ricerca della verità. Ma anche l’opportunità che esso regala, e cioè raccontare il mondo. Lo si può fare in molti modi: io, per esempio, amo scrivere di attualità e cultura. Presto però l’arcobaleno scompare, per tanti motivi. Anzitutto perché ormai il giornalismo è un mestiere sempre più schiavile: tolti i privilegiati e i divi televisivi, gli altri fanno la fame o vivono tra mille difficoltà. Non si assume praticamente più, e quando lo si fa il talento non è quasi mai l’elemento più importante: spesso contano il nome che hai e le relazioni che puoi offrire. In secundis, il giornalismo è un mestiere feudale. Esistono infatti i proprietari terrieri degli spazi e degli argomenti: il che significa mettersi in fila per anni per ottenere al massimo un osso rosicchiato. Non parliamo poi dei compensi. Molti collaboratori esterni vengono pagati pochissimo: eppure sono loro che mandano avanti la baracca. Ma ci sono anche altri problemi. Il giornalismo è diventato un mestiere terribilmente impiegatizio: chi lavora in redazione spesso passa il suo tempo a passare i pezzi degli altri, a titolare e a riempire boxini; non si esce più, salvo lodevoli eccezioni; si è incatenati alle notizie d’agenzia e al web. Ma il giornalismo più vero e autentico è quello che ti permette anzitutto di parlare con le persone, di vedere e riferire.

A mio avviso, comunque, giornalismo più bello è quello che si fa in radio, dove non si è schiavi delle immagini e conta la forza della parola. Anche la carta stampata ha un suo fascino un po’ per lo stesso motivo; poi c’è l’oceano del web, che potrebbe essere uno spazio interessante ma spesso viene riempito di contenuti pessimi o banali; il giornalismo televisivo non mi piace per niente, anche perché in molti casi non racconta nulla se non l’ego smisurato del giornalista. Ovviamente salvo lodevoli eccezioni”.

Il libro è molto diretto, crudo, vero. Quali sono state le sue emozioni durante la stesura?

“Non è stato semplice lavorare alla stesura di questo libro. Non è un’autobiografia poetica, ci tengo a precisarlo, ma ovviamente c’è tanto del mio vissuto personale. So di cosa parlo, non mi sono inventato nulla. Ho tra l’altro raccolto nel libro un triste patrimonio di esperienze comuni di cui nessuno parla. Precarietà e stipendi da fame sono il pane quotidiano di tanti giornalisti che vivono del proprio lavoro e basta, senza inseguire la celebrità o patetici occhi di bue. I miei frammenti, ai quali mi auguro di aver conferito un minimo di sostanza poetica, sono dedicati non a caso ai miei compagni di sventura. Non poche volte ho avuto la tentazione di mollare, anche perché il mio è sostanzialmente il racconto di chi non ce l’ha fatta. E tuttavia è un racconto intellettualmente onesto, non un piagnisteo. Infatti, pur tra mille difficoltà e anche se ho scelto di provare la carriera dell’insegnamento, continuo a scrivere. Ho un tesserino da giornalista professionista: non rinuncio tanto facilmente a esercitare una professione alla quale ho dedicato, e dedico ancora, lacrime e passione”.

Scrittura come liberazione o libertà di scrittura?

«Direi più la prima, e mi piace citare non a caso la parte finale di una delle poesie più belle di Franco Fortini: “Nulla è sicuro, ma scrivi”.

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“A CORPO VIVO”: LE NUOVE POESIE E LE BELLE CONVERSAZIONI SULL’AMORE CON ANNA SEGRE

Anna Segre ne ha fatta un’altra. Una nuova, bellissima raccolta di poesie d’amore intitolata “A corpo vivo”. Come lei stessa lo ha definito si tratta del frutto della sua rinascita. Abbiamo incontrato l’autrice che è anche medica, psicoterapeuta e tanto altro, per parlare d’amore e di poesia. Per chi volesse, la prossima presentazione sarà a Roma venerdì 16 giugno alla 18.30 , Polo Museale dei Trasporti in via B. Bossi, 9 nell’evento TrAmBuSto Letterario, organizzato dall’associazione Donne di Carta. Con la poeta sarà presente anche l’attrice teatrale Giuditta Cambieri.

Anna Segre, sulla copertina del suo ultimo libro di poesie “A corpo vivo”, lei ha scritto: “C’è qualcosa di più rischioso che amare davvero qualcuno?”. Cos’è l’amore per lei?

“Amore, parola riassuntiva e depistante, è la risorsa delle risorse. Non c’è che l’amore per cui si compete, si vuol essere migliori, ricchi, bravi, riconosciuti. Tutto confluisce lì, al voler essere amati, a ciò che si crede serva per essere amati (essere belli, magri, colti o con le armi più forti o coi migliori cromosomi o con la giusta collocazione sociale).

Amore, estrema necessità per l’essere umano, che può sublimarla, appunto, in ciò che crede serva per averlo, un corpo perfetto, un grande potere, un orologio di marca, è, appunto,

terribile poiché ineludibile.

Terribile poiché non protocollabile.

Terribile, per la terza volta, poiché la grande forza di chi ama non è irreggimentabile, sfruttabile, anche se le religioni e i governi ci provano riempiendo di motivazioni atte ai loro scopi (ordine sociale, guerra, riproduzione) la parola amore. E lui travalica religioni e governi trasgredendo e scavalcando i recinti, trovando una parziale rappresentazione nella musica, nella poesia, nella letteratura e nella spiritualità.

L’amore, mi viene da dire, è un dio che guida i nostri legami, che dà scopo alla nostra esistenza, che ci mette in relazione gli uni con gli altri e crea coesione, collaborazione, empatia, anche collettive.

Chi ama ne è posseduto, poiché non può né comandarsi di amare né imporsi di smettere.

La psichiatria non può chiudere l’innamoramento e l’amore in definizioni neurotrasmettitoriali esaustive che tutto spieghino, né dare una definizione dello scopo specifico dell’amore, come invece si può fare per le emozioni in genere. Ogni emozione copre uno scopo relazionale con l’ambiente.

La rabbia: sto subendo un’ingiustizia, stanno calpestando un mio diritto.

La paura: sta per succedere qualcosa di terribile. E’ certo che soffrirò moltissimo.

L’ansia: sono in attesa di qualcosa che potrebbe essere sia negativo che positivo. E se fosse negativo? Che farò?

E così via.

Con l’amore questo non è possibile, poiché per ciascuno amore corrisponde a qualcosa di diverso.

E si badi bene: non sappiamo in che modo ognuno crei questo suo dio possedente, possiamo a volte ricostruirne alcune parti, l’infanzia, i traumi, la personalità, ma mai l’intero perché del tuo innamoramento e amore.

Amare, dunque, significa, secondo me, avvicinarsi al nutrimento fondamentale e al contempo sapere che si potrebbe non averlo più per i più disparati (e fuori dal nostro controllo, come l’amore!) motivi:

cause di forza maggiore,

malattie,

morte,

famiglie avverse,

guerre,

proiettili vaganti,

il muro di Berlino,

un terremoto,

e la fine del sentimento stesso da parte della persona amata.

Amare è rischiare.

Non amare, per me, può accedere a un’assenza di senso, insomma, al costrutto di base della depressione”.

Anna Segre e Giuditta Cambieri

“A corpo vivo”. Dopo la “Distruzione dell’amore” questo titolo sembra alludere quasi a una resurrezione. E’ così?

“Sì. E’ stato come rinascere, accorgermi di amare di nuovo, dopo tanti anni. Ero come spenta, tranquilla e grigia, sempre più evanescente. E poi mi sono innamorata e, paf, ero di nuovo a tre dimensioni. E mi sono messa a scrivere le poesie per lei, per corteggiarla, per raccontarla, per ipotizzarci, fantasticarci noi, insieme, per creare linguaggio coniugato alla prima persona plurale”.

La copertina del libro di poesie di Anna Segre

Quanto ha amato, Anna Segre?

“Questo libro è il frutto della rinascita. Ho amato tanto. Sempre pensando, nel mio fondamentalismo divino, che fosse l’unica persona possibile. E’ stato come seminare, coltivare, aspettare, bestemmiare e raccogliere i frutti. E ci sono stati ogni volta, i frutti. Nel mio caso, con le mie amori, ci siamo sempre perdonate la fine della relazione inaugurando nuove stagioni di frequentazioni e progetti diversi da quello originario. No, non erano, ognuna, l’unica possibile. Però posso giurare di averlo creduto con ogni mia cellula, quando gliel’ho detto. Mi ricordo perché ti ho amata, non ho bisogno di infangare la tua memoria per lasciarti, anche quando non ti amo più. E mi ricordo perché è finita, me lo tatuo dentro, il perché della fine. Ma potrebbe essere la fine di un periodo neurotrasmettitoriale, di una curva chimica che flette in due/quattro anni e ti lascia senza più voglia di quella persona. Come la fine di una stagione”.

Quanto ha odiato l’amore, Anna Segre?

“Bestemmiando, appunto. Ho odiato (ammetto di saper odiare) l’amore come si odia qualcosa di irrinunciabile. Lui, come dio, se ne fotte di me, io invece non posso vivere bene senza di lui”.

E’ innamorata?

“Sono innamorata pazza, sì. E questo libro parla del desiderio. E’ la storia di questo desiderio, com’è nato e come si è sviluppato. Non vi dico la fine, sarebbe spoilerare!”.

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ELOGIO DELLA FOLLIA. PSICODRAMMA AL GRANDE FARDELLO @ LA POSTA DEL CUORE DI MAVA FANKU’

Alda Merini (“io sono folle, folle, folle d’amore per te“, recita il primo verso di una sua famosa poesia) è uno dei più alti esempi di follia elevata ad arte pura della parola.

Emyliù legge ALDA MERINI “Io sono folle”

Vittorio Gasmann (“Fa male il Teatro“, titolo di un suo spettacolo durante il quale recitai un monologo dal Trovarsi di Pirandello), grande depresso, e grande mattatore del Teatro Contemporaneo.

Ligabue (Toni el mat, lo chiamavano così), grande pittore e grande matto.

Carmelo Bene (Sono apparso alla Madonna, un suo paradossale aforisma), geniale filosofo neoavanguardista teatrale, era perlomeno borderline.

Vittorio Sgarbi (capra, capra, capra, interlocuzione che incrementa il suo fatturato per le risse televisive a pagamento), grande critico d’arte e primo vip della Tivvù, avrà almeno un disturbo narcisistico condito con greggi di capre in transumanza.

E via degenerando, fino ad arrivare all’esempio più infimo rappresentato dal “Grande Fratello” o, per meglio dire, “Grande Fardello”, che, dopo un inizio di anonimi aspiranti vips, è sempre stata una grande gabbia televisiva di disturbi della personalità, manifestati da così detti “vipponi“, ex personaggi delle spettacolo o pseudo tali, già tramontati o nel limbo del postmoderno influencerismo, più o meno mediocri, e più o meno fobici, come Pamela Prati (inventrice insieme ad altre del caso-psyco di Mark Caltagirone), che usa anche un suo presunto disturbo claustrofobico per aggiungere una nota psichiatrica più seria e generante umana pietas alla sua sindrome di diva del nulla.

E se la nostra Pamela (conosciuta negli anni d’oro del Pantheon, in una famosa piazza di Roma, ritrovo di artisti e aspiranti personaggini dello spettacolo) è una delle figure meno insulse là dentro, figuriamoci tale Gegia, che abbiamo scoperto essere laureata in psicologia (probabilmente con i punti Mira Lanza), o tale Ciacci, st(u)ilista modaiolo con la barba blu, che avrebbe scopiazzato un libro di Giò Stajano, tentando di coinvolgere la nipote in un finto litigio televisivo per venderne qualche copia… Stendiamo un impietoso velo.

E anche la spettacolare Elenoire Ferruzzi, una vera e propria installazione vivente di body-trans-art, con unghie ramificate come rossi peperoncini (così li ho definiti io e poi, subito dopo, la nostra nazional-popolare con aggiornamento post-modernista, Orietta Berti).

Insomma, questi svips, e altri ancora, si sono resi protagonisti di una vera e propria tele-bullizzazione verbale nei confronti dell’ex conduttore televisivo di Bim Bum Bam, volto noto negli anni 70-80, Marco Bellavia, che aveva manifestato agli altri inquilini della casa le sue fragilità emotive con conseguenti problematiche mediche, quali la depressione e gli attacchi di panico. Ma il suo confessato disagio psichico non è stato gradito dal cast di questa edizione e, probabilmente, neanche agli autori dello show che hanno consentito certe dinamiche, senza bloccarle subito (come era stato fatto in altre edizioni) per poi, una volta auto-eliminatosi il concorrente “guasto“, utilizzarle a vantaggio dell’audience del programma nelle puntate successive, facendo un vero e proprio processo in diretta televisiva, con tanto di condanne e sentenze.

Come dire che anche i disturbi psyco, diffusissimi in questi ambienti dove si mercifica l’esibizione della propria vita, spesso travagliata, o mostrata come tale, sono più o meno tollerati, in base alla spettacolarizzazione che il “personaggio” ne fa. A patto che non si esprima un disagio più clinico che televisivo. In passato, tale “Conte Filippo Nardi” manifestò serie problematiche nella gestione della rabbia, arrivando a spaccare elementi dell’arredamento della Casa del G.F. e rilasciando “confessionali” minacciosi per la sua astinenza dal fumo di sigarette che richiedeva in modo violento.

Ecco, questo passa, perchè fa gioco alle dinamiche del programma. Come l’uso terapeutico, quasi da gruppo di autoaiuto, che ne fece Lory del Santo in una passata edizione, quando decise di partecipare comunque anche dopo aver appreso del tragico suicidio del figlio. E tutti si prodigarono a sostenerla durante il percorso. ”

Ma alle esplicite richieste di aiuto di Marco Bellavia, che voleva continuare il suo percorso nel programma, anche se aveva momenti di visibile malessere, non solo sono rimasti quasi tutti indifferenti, ma hanno cominciato ad inveire contro di lui (“tu sei pazzo, ti devi far curare” – è stata l’illuminata diagnosi della psicologa Gegia – e “tu meriti di essere bullizzato” – gli disse carinamente Ginevra Lamborghini, sorella della più nota Elettra, poi eliminata per questo in modo esemplare, accusandolo di voler strumentalizzare il suo problema, e qualcuno insinuò persino che stesse recitando.

Il conduttore Signorini bisogna dire che, in questa occasione, è stato bravissimo a rendere accettabile persino l’inaccettabile, confezionando perbene anche questa ennesima bruttissima televisione, da lui stesso definita tale, come una lussuosa scatola di cioccolatini alla melma di cui il pubblico della tv trash è sempre ghiotto, servendoglieli con un consolatorio retrogusto di “io mi sento migliore di tutto questo”…

Mala tempora currunt… ed è così che questa edizione del Grande Fardello sarà ricordata come l’edizione più miserabile e, in questi tempi di guerre, carestie e pestilenze, probabilmente più seguita.

Mava Fankù

POESIE di ALDA MERINI interpretate da Mava (Emyliù) Fankù

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  • Registrazione Tribunale di Roma n.133/22 del 8/11/22

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