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EDITORIALE – ELLY SCHLEIN E L’ARMOCROMIA, TANTO RUMORE PER NULLA

Il 20 gennaio 2021, per la cerimonia dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca, la vicepresidente Kamala Harris scelse di indossare un tailler viola. Questione di gusti? Forse, ma basterebbe informarsi sulla storia del colore per sapere che il viola è composto dall’unione del rosso e del blu, colori simbolo di democratici e repubblicani e quindi il look di Harris voleva significare l’unione delle due anime del Paese nella sua persona, che le avrebbe rappresentate entrambe. Andando ancora indietro nel tempo, Elisabetta I si presentò vestita di viola alla sua incoronazione a Londra il 17 novembre 1558, indossando il colore simbolo dei regnanti, ancor oggi usato, come dimostra la foto in basso, che ritrae la regina Rania di Giordania in una visita ufficiale ai regnanti di Svezia. Il potere comunicativo del colore è quindi indiscutibile. Ma non altrettanto indiscutibili sono, pare, le scelte di stile della segretaria del PD Schlein che, in una sola riga e mezzo estrapolata da una lunghissima intervista a Vogue, parlando del suo rapporto con una armocromista che la aiuta nella scelta dei suoi look, ha scatenato un vespaio di polemiche.

La Regina Silvia di Svezia e la Regina Rania di Giordania Nieboer / ipa-agency.net

Forse che Schlein risulta meno credibile politicamente perché cura la sua persona? Ritengo che il look costruito da capi casual indossati a casaccio o peggio ancora, di gonne fiorate a balze e zoccoli in puro stile anni ’70, così caro a certe sinistre, sia espressione di anacronismo e quasi di imposizione di una immagine stereotipata, azione inconciliabile con i valori che esse rappresentano. Per essere credibile, una donna politica di idee progressiste deve mostrarsi per forza trascurata? Oppure essere in ordine significa aver sottratto tempo all’attività di governo a favore di se stessa? La grande Nilde Iotti era aspramente criticata per il look sempre impeccabile dai suoi stessi colleghi, che la ritenevano troppo sciura e poco comunista, con quelle perle e i capelli mai fuori posto, eppure seppe rappresentare le istanze dei cittadini con una statura politica oggi forse impensabile. Oltre oceano, l’armocromia vige dagli anni ’50; in Gran Bretagna, basti pensare al look della Thatcher, alla quale furono vietati gli amati cappellini e gli abiti pastello a favore di un look che emanasse autorità, a partire dall’acconciatura, studiata per lei in un salone di Mayfair, che la rendesse simile alla criniera di un leone e ispirasse rispetto. Quindi, di cosa stiamo parlando, in realtà?

Se si vuole criticare Schlein, lo si faccia sul piano prettamente politico. Quando si giudica una donna per il suo look è perché, ormai, si è raschiato il fondo del barile senza trovare altro a cui appigliarsi. Prima lei era quella imposta dall’alto, poi l’ebrea, poi la snob, poi la riccastra. E allora? E’ stata votata, quindi il posto è suo di diritto, con buona pace di chi (ancora) non se ne da pace. Come diceva Andreotti, uno che la sapeva davvero lunga, il potere logora chi non ce l’ha, e si vede. Da ultimo, sarebbe interessante scoprire con quali soldi la segretaria democratica paga la sua armocromista: sono sicura che lo fa coi suoi e non con quelli dei contribuenti. Quindi, si taccia perché si fa più bella figura. E si legga il restante 90% dell’intervista a Vogue, perché merita davvero attenzione.

Per documentarsi sulla storia del colore: Riccardo Falcinelli “Cromorama” (2017, Einaudi)

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