3 Ottobre 2023

marocchinate

LE MAROCCHINATE: LE CINQUANTA ORE E IL GENERALE JUIN

IL PROCLAMA DEL GENERALE JUIN
“Il vostro generale vi annuncia, vi promette solennemente, vi giura, sul suo onore di soldato e sulla bandiera di Francia, che si alza, per l’ultima volta, il sole sulle vostre sofferenze, sulle vostre privazioni, sulla vostra fame. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga… ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per cinquanta ore. E potrete avere tutto, prendere tutto, distruggere o portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato”.


Questo discorso, attribuito al Generale Alphonse Juen, al quale il generale Clark, a capo della V Armata americana, si era affidato per sfondare la linea Gustav, sembra fosse stato declamato ai goumiers alla stregua di un patto, che accordava loro il diritto di preda e saccheggio sulle terre che avrebbero liberato dai nazisti. Juin, in quanto pied-noir, godeva della stima e della fiducia dei goumiers, che aderirono con entusiasmo alla sua chiamata alle armi. Pied-noir è l’appellativo francese con il quale vengono indicati i figli di genitori francesi nati in nord Africa, o più in generale, i coloni francesi che vi vivevano prima della concessione dell’indipendenza alle colonie.
Il carattere sistematico delle violenze e la sostanziale acquiescenza degli ufficiali francesi che erano al comando dei goumiers conferma che essi ubbidivano a disposizioni superiori e che pertanto la responsabilità storica di questi fatti non è riconducibile unicamente a chi li ha fisicamente perpetrati.

Ascolta il proclama del generale Juin letto da Alessio Papalini

Documenti relativi al proclama del generale Juin (segnalazione di Marcello Remia)

“Bambina mia, nun pensà ca io so sempre stata accussì vecchia. So stata pure na bella giovana, tenevo gli capigli niri niri e nu petto che nun te dico, l’uommene me se giravano arrete pè guardà… ma me sa che tu nun capisci stu dialettu, n’e’ vè? Ora che ti guardo meglio assomigli tutta a nonneta. Gl’uocchi, gli capigli rusci, e la forza, la forza sua sta dentro di te. Quando sono nata io lei teneva quattordici anni, poi semmo cresciute assieme. Lei se sposette e io pure, all’epoca nostra era così, nun se scappava. Della scola m’arricuordo poco, ho fatto fino alla terza elementare e poi chiù niente, se doveva lavorà la terra e governà le bestie, poi te maritavi e tanti saluti. La casa, gli figli, lu marito pranzo cena e colazione. Bambina mia, mica era comma adess, nun se scappeva.
E dopp arrivette la guerra.
La fame ce steva, ma finchè se puteva coltivà avevamo tutto; facevo lo pane, avevamo le gagline pe l’ova, insomma se campava. Maritem se n’era ito alla guerra e io teneva già du figli da guardà.
A ventiquattr’anno i nun pensava proprio che a dà da magnà alle criature, non era comme a mò che c’avite tutto; a maggio del 44 se spasette la voce che l’alleati stevano arrivanno, e nui ce credimm, nun se poteva fa altro che crederece.

Gli alleati… ah bambina mia. Gli alleati arrivetter co le veste longhe e gli recchini agliu naso e alle recchie. Gli alleati acchiappetter le femmene e le pigliarono, vecchie giovani mezzane, tutte tutte quante. Accisero le bestie e s’arrobbarono la robba e lo corredo dentro alle case.
Appicciarono gli fuoco alle case, e si tu pruvivi a ribellarte, allora erano mazzate, tante mazzate da lasciarte muort’n terra. Nun venivano da soli, stavano in sette, otto, dieci e più. Le cavallette parevano. Le cavallette.
T’aggia guardata mentre magnivi co nui, oggi. Aggia sentito lu mestiere che fai, e quand t’aggia vista me so detta ecco Idarella, co gli uocch virdi e gli capigli rusci, ma nun era Idarella, eri tu. Me si fatta morì quanno t’aggia vista, pe lo ricordo dell’amica mia, perchè a lei aggia voluto bene come a na sorella, perchè dopp tutto è venuta Idarella da me. Doppo che gli marucchin pruvetter a prenneme, ma nun ce riusceren, pecchè m’arribbellai e allora m’acciser de mazzate.
Bambina mia vieni qua. Te facciu vedè na cosa. Me la so tenuta pe settant’anni. La tengo dentro a nu fazzoletto, a lo primo cassetto de lo commò, nascuosto bene.
Lui m’accidett de mazzate, lu marucchino, ma io gliu recchino dalla recchia ce lo strappai. Eccolo.
Pigliatell, adesso i me so’ liberata da sto male”.
Ho conosciuto Rosa per caso, a seguito di una serie di coincidenze incredibili. Questa bellissima signora di novantacinque anni mi ha voluto raccontare la sua storia in maniera spontanea, senza che io le ponessi alcuna domanda. Sicuramente la sua amicizia con mia nonna (Idarella), e la
mia somiglianza fisica con lei, hanno facilitato il dialogo creando un clima di fiducia reciproca. Ho voluto trascrivere la sua testimonianza integralmente, conservando il dialetto
.

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ESCLUSIVA – LE MAROCCHINATE DI STEFANIA CATALLO, IL LIBRO A PUNTATE: PARTE 1

In copertina: Rosella Mucci in “La marocchinata” (2013), corto teatrale tratto dal libro di Stefania Catallo.

Ho deciso che mi sarei occupata delle Marocchinate (il termine “Marocchinate” rappresenta un neologismo entrato nel linguaggio comune, soprattutto in Ciociaria, col quale vengono indicate le donne vittime degli stupri operati dai goumiers nordafricani nel 1944. Questo termine, sebbene possa far pensare ad una responsabilità diretta ed esclusiva dei fatti da parte di una sola etnia, non è inteso come denigratorio o razzista, bensì come espressione della cultura dell’epoca) nel 2012, ma in realtà il mio interesse verso queste donne era nato molti anni prima.
I miei genitori sono entrambi di origini ciociare, di una cittadina a pochi chilometri da Frosinone. Per anni, durante l’infanzia, ho trascorso i fine settimana e le estati nella campagna dove abitavano i miei nonni; e in tutto questo tempo non avevo mai sentito parlare di marocchinate. Avevo ascoltato qualche storia sulla guerra raccontata dagli uomini, o quella familiare, ben più importante circa l’occupazione di casa della nonna da parte di un comando nazista per diversi mesi, poco prima della battaglia di Montecassino, ma niente altro.
Un giorno d’estate, durante un dopopranzo caldo e pigro, arrivò un venditore ambulante. Era un ragazzo sui trent’anni, con i capelli scuri e la pelle ambrata. Si trascinava dietro una specie di carrettino di legno che aveva dipinto di rosso, e sul quale trovavano spazio stoffe, scarpe e bigiotteria di tutti i tipi. Per richiamare l’attenzione al suo passaggio, ogni tanto gridava: “È arrivato Giuseppe, è arrivato Giuseppe”; in realtà la sua pronuncia era tale che Giuseppe diventasse Sgiusep, donando un suono dolce e aspirato al suo nome.

Noi bambini ci eravamo precipitati verso il carrettino colorato, e avevamo trascinato l’uomo e la sua mercanzia verso casa della nonna. Mentre guardavamo tutte le cose meravigliose che vendeva, Giuseppe ci raccontò che veniva da un villaggio del Marocco, dove aveva moglie e figli. Qui in Italia cercava di mettere da parte qualche soldo da mandare alla famiglia, facendo economia fino all’osso.
Mia nonna era uscita nel cortile per vedere di cosa si trattasse, salvo poi tornare precipitosamente in casa alla vista dell’uomo, avendo buona cura di chiudersi a chiave e urlare a mio padre e mio zio, che stavano tranquillamente giocando a carte, di cacciare via il “marocchino”. Giuseppe era un ragazzo simpatico e sorridente, e si fermò per un po’ di tempo con noi a chiacchierare, mangiando con gusto il piatto di fettuccine al sugo che gli vennero offerte in segno di ospitalità, mentre la nonna rimaneva barricata in camera. Giuseppe tornò da noi altre volte, e solo dopo parecchio tempo la nonna si decise a uscire dalla sua stanza e parlare con lui. Sembrava quasi terrorizzata dalla presenza di questo ragazzo, che invece tentò di compiacerla regalandole una collana di perle, offerta con un sorriso disarmante.
All’epoca non feci caso a tutto questo, considerandolo come una bizzarria dovuta all’età della nonna; ma dopo molti anni il ricordo si riaffacciò alla mia memoria, e viste le ricerche che stavo facendo sulle marocchinate, tutto divenne più chiaro.
Il passaggio delle truppe nordafricane nel basso Lazio e in Ciociaria, nel maggio del 1944, aveva prodotto devastazioni inimmaginabili. Questi soldati erano stati impiegati dagli Alleati come una testa d’ariete per lo sfondamento della Linea Gustav, che passava per i Monti Aurunci, dividendo l’Italia in due. Nessuno era stato in grado di far retrocedere l’esercito nazista dalle montagne sulle quali si era arroccato, respingendolo verso nord; si era quindi deciso di mandare i goumiers, le truppe nordafricane al seguito della V Armata del generale Juin, in quanto specializzati nella guerra di montagna.
Tutto questo era costato ai goumiers un prezzo altissimo in vite umane, ma altrettanto alto era stato quello pagato dalle popolazioni locali che erano state depredate, sottoposte a violenze e saccheggi e soprattutto agli stupri sistematici dei goumiers. Interi paesi erano stati travolti da questa furia inarrestabile, che si era abbattuta non soltanto sulle donne, ma anche su uomini e animali.
Alla devastazione della guerra si era aggiunta anche questa tragedia, rendendo pesante la ricostruzione delle comunità, colpite al cuore dalla violenza immotivata e inaspettata di coloro che erano stati considerati quali i liberatori dal nazifascismo.
Per tanti anni questa dolorosissima vicenda umana è rimasta semisconosciuta; le popolazioni hanno ricostruito i paesi e le case, ricominciando la loro esistenza senza parlare di quello che avevano subito.
Ma la memoria è una forza potentissima, non può essere cancellata, e alla fine i racconti di questa pagina di storia sono emersi prepotentemente dai ricordi di coloro che prima avevano subito l’onta delle violenze, e poi l’indifferenza dello Stato.

Quando ho iniziato a occuparmi di violenza di genere, e in seguito con la creazione del Centro Antiviolenza Marie Anne Erize, ho sentito sempre più forte l’esigenza di raccogliere le testimonianze di quanti avevano vissuto quelle tragiche cinquanta ore di carta bianca, che si dice fossero state concesse come premio dal generale francese Alphonse Juin ai goumiers se questi fossero riusciti a far retrocedere i nazisti il più possibile dagli Aurunci e che si svolsero tra il 12 e il 17 maggio 1944.
Le storie di questo libro sono tratte dai racconti che ho ascoltato personalmente nel corso di dodici anni di ricerca; per tutelare la riservatezza delle testimoni, ho cambiato i loro nomi e non ho indicato i luoghi nei quali si sono svolte le loro vicende. A volte è stato complicato raccogliere i ricordi dei testimoni, e a volte mi è capitato di ascoltare queste voci in modo del tutto fortuito e casuale; tuttavia ho sempre vissuto una sensazione di accettazione e di piena fiducia da parte di quanti hanno voluto regalarmi la loro memoria, e ho sempre percepito con forza il loro desiderio di raccontare. Le vicende narrate sono tutte autentiche, con l’eccezione di “Francesca”, che mi è stata ispirata dalla lettura di una testimonianza contenuta in un libro; una sola, “Maria Maddalena”, è frutto di fantasia: tutte comunque vogliono trasmettere il senso della tragedia vissuta, e quanti segni essa possa avere lasciato nelle vite di coloro che ne sono stati travolti; ma soprattutto vogliono essere testimonianza viva e attuale del dramma vissuto settanta anni fa delle donne ciociare.
Perché non accada mai più, da nessuna parte.

LA SECONDA PARTE DEL LIBRO USCIRA’ SUL MAGAZINE MERCOLEDI’ 10 MAGGIO

LO SPETTACOLO TEATRALE. LE MAROCCHINATE, REGIA E DRAMMATURGIA DI FRANCESCA ROMANA CERRI DAL LIBRO OMONIMO DI STEFANIA CATALLO

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