Le Marocchinate

ESCLUSIVA LA TESTIMONIANZA DI MARCELLA DA “LE MAROCCHINATE” IL LIBRO A PUNTATE

Marcella, nome di fantasia, all’epoca novantenne, sette anni fa si imbarcò in un viaggio a Roma nel cuore dell’inverno per testimoniare quello che aveva vissuto sulla sua pelle durante i saccheggi dei goumiers. La testimonianza video che proponiamo è stata registrata nel liceo Amaldi di Roma, dove la signora venne accolta dalle studentesse di una quinta col la collaborazione della professoressa Mariella Cupitò, da sempre attenta a questa pagina semisconosciuta della nostra Storia. Semmai ce ne fosse bisogno, voglio puntualizzare che “Le Marocchinate” è un libro senza razzismo e senza nessuna politicizzazione, nonostante negli anni i tentativi di strumentalizzarlo partiticamente siano stati numerosi. Da autrice, ho voluto riportare le emozioni e le esperienze di queste donne, eroine e non vittime, fiere e resistenti come la loro terra, la Ciociaria.

MARIETTA NELLA COPERTA
Io l’aggia visti cu l’uocchi mia, a chigli.
Mamma, appena aveva saputo che stavano entrando in paese, era scappata nell’orto dove stavo lavorando, e mi aveva chiamata, anzi aveva iniziato ad urlare di lasciare tutto e correre subito da lei. Mi ero rialzata e l’avevo vista agitarsi in preda al panico finché non mi aveva trovata; quindi mi aveva afferrata per un braccio ed eravamo entrate in casa di corsa, gettando sul tavolo della cucina qualche pomodoro che avevo colto. Poi mi aveva spinta in camera da letto, chiudendo la porta. Mio zio Paolo, che non era andato in guerra perché debole di mente, era rimasto fuori della stanza come una sentinella, col fucile da caccia carico in mano.
Mamma allora aveva disteso per terra una grossa coperta di lana, di quelle tessute in casa, ruvida e caldissima per l’inverno, facendolo con gesti calmi anche se vedevo le sue mani tremare dalla paura. Mi disse che doveva avvolgermici dentro e così fece, facendomi sdraiare e arrotolando con cura la coperta in modo che non fossi visibile, e legandola con dei grossi spaghi. Poi chiamò lo zio, e insieme mi posero in cima all’armadio, mettendomi insieme a un mucchio di vecchie lenzuola, raccomandandomi di non muovermi e non parlare per nessun
motivo.
Là dentro si soffocava, e dissi alla mamma che se fossi restata avvolta nella coperta per molto tempo di sicuro sarei morta. “Meglio morta nella coperta che sotto ai marocchini.” mi rispose
lei. Poi, chiusero la porta della camera da letto e andarono via. Quando quelle bestie arrivarono, me ne accorsi dai rumori e dalle grida; fortunatamente non erano interessati a rubare la biancheria di casa, e per questo sono ancora viva. Sentii che entravano in
camera parlando tra di loro e battendo i muri col calcio dei fucili in cerca di nascondigli segreti per l’oro e il denaro, ma non trovando niente di interessante se ne andarono.
Quello che ho sentito mentre ero nascosta sull’armadio è stato talmente brutto che ancora me lo sogno. Ero una ragazzina di tredici anni quando successe l’inferno, ma questo incubo mi
perseguita da tutta la vita, anche adesso che di anni ne ho 90. In Ciociaria sapevamo che erano arrivati i marocchini, e pensammo fino all’ultimo che fossero i liberatori, venuti a riportare la pace e l’abbondanza. Fino a che non gli venne data carta bianca, non poterono toccare nessuno né fare nulla di male. Dopo, invece, la fecero da padroni, iniziando con le donne.
Riuscivano a capire dove erano nascoste le ragazze, perché già avevano violentato e ucciso nei paesi vicini; conoscevano i loro nascondigli e le trascinavano fuori con la forza per violentarle.
Quando prendevano una ragazza lo facevano in gruppo, e alla fine di lei cosa rimaneva? Niente, solo un vestito e poco altro, un fantasma che poi vagava stordito e pieno di sangue per la strada. Alcune morirono durante la violenza, anzi a pensarci bene sono più quelle morte che quelle che sono rimaste vive. Loro, i marocchini, non avevano paura di nessuno: ormai non esistevano più le autorità, non c’era più la legge e quindi i padroni erano loro. Da noi a Ceccano, non c’era più neanche la caserma dei carabinieri, e poi girava voce che avessero avuto l’autorizzazione a scatenare quell’inferno dai loro superiori. Avevano liberato un branco di bestie feroci, e noi non eravamo riusciti a difenderci dalla loro furia.
Dopo il passaggio dei marocchini, tante di noi si rifugiarono nel convento dei padri Passionisti, alla Badia di Ceccano; io stessa ci rimasi per parecchio tempo, fino a quando non arrivarono gli
americani coi carri armati, e ci sentimmo sicure di uscire senza essere aggredite. Dovevamo essere un bello spettacolo: sporche, scheletriche per la fame, e terrorizzate dell’eventualità che
potesse succedere di nuovo lo scempio che molte avevano già subito. Li guardavamo con gli occhi sbarrati, tremando e pronte a scappare se avessimo avvertito qualche pericolo.
I soldati ci diedero da mangiare e poi andarono via, e noi riprendemmo la nostra vita.
Quando gli uomini tornarono dalla guerra, si celebrarono i primi matrimoni. Quelle che erano state violentate si accorsero di non poter portare avanti una gravidanza, oppure davano alla luce dei figli malformati o troppo piccoli per sopravvivere. Forse i marocchini le avevano infettate con qualche malattia. Qualcuna ha ottenuto la pensione di guerra per quello
che le avevano fatto quei demoni, ma a che cosa è servito, se ormai erano rovinate per sempre?
Abbiamo aspettato la giustizia per anni, ma non è mai arrivata e quando anche l’ultima di noi morirà, chi si ricorderà più delle Marocchinate?

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ESCLUSIVA SUOR TERESINA DA “LE MAROCCHINATE” IL LIBRO A PUNTATE

L’assalto dei goumiers del maggio 1944 non risparmiò neanche i conventi. Molte suore vennero violentate, sebbene la Chiesa non lo abbia mai confermato. La testimonianza di suor Teresina risulta pertanto preziosissima, e sebbene sia stato per me estremamente difficile raccoglierla, rimane una delle voci più intense che io abbia ascoltato durante la mia ricerca. Stefania Catallo

Montaggio video: @Emilio Spataro

Ho commesso peccato mortale, ma il Signore saprà perdonarmi. Lo so che è una cosa terribile, ma che altro potevo fare?
Io sono suor Teresina del Volto Santo di Gesù, ho quasi novanta anni e sono suora da una vita, ormai.
Insieme con le altre sorelle abbiamo fatto sempre una vita molto ritirata e tranquilla: preghiera e lavoro, lavoro e preghiera, per noi e per il mondo, che ce n’è davvero tanto bisogno. Ma si prega pure lavorando, e ognuna di noi, qui nel convento, è come l’ingranaggio di un orologio: per farlo funzionare bene dobbiamo impegnarci tutte e ognuna ha il suo compito. Io, ormai, alla mia età posso fare ben poco, ma riesco ancora a ricamare. Lo faccio benissimo come quando ero giovane e le famiglie dei paesi vicini mi mandavano le figlie per imparare. Sapesse quanti corredi abbiamo creato, cose talmente belle da fare invidia agli angeli! E poi con me queste ragazze hanno imparato un mestiere, così se avessero avuto problemi di soldi, beh di sicuro se la sarebbero cavata.
Qui intorno abbiamo avuto i tedeschi per anni. Non si sentivano neanche, sembravano come fantasmi; li vedevamo ogni tanto, quando un attendente bussava alla nostra porta per comprare un po’ di miele o una bottiglia di vin santo per gli ufficiali. Con noi si comportavano bene, erano educati; sapevamo perfettamente che fuori dal convento le cose erano diverse. Dopotutto erano invasori, e certo non erano i benvenuti soprattutto tra i giovani. Dopo l’8 settembre poi, erano diventati spietati, ormai sapevano di avere perso la guerra e allora la loro rappresaglia era diventata brutale. Da noi arrivavano i feriti per la Resistenza e quelli che volevano nascondersi, e la madre superiora li accoglieva e li curava.
Noi suore abbiamo sempre fatto il possibile per loro, senza fermarci mai se non per cambiarci l’abito che dopo poche ore era già sporco di sangue un’altra volta, pregando, pregando sempre perché se non lo avessimo fatto saremmo diventate tutte pazze. Sì, perché quello che vedevamo era troppo: i feriti, gli uomini fatti a pezzi, con il sangue che ci schizzava addosso, e dovevamo tamponare emorragie e raccogliere pezzi di carne, e sorridere, sorridere comunque. Se non ci fosse stata la preghiera io non lo so come avremmo fatto… forse saremmo tutte morte, o peggio.
Quando abbiamo saputo che erano sbarcati gli Alleati, ci è sembrato che il Signore avesse risposto alle nostre preghiere. Abbiamo celebrato una messa di ringraziamento mettendo la tovaglia più bella sull’altare. È venuta tanta gente, avevamo tutti la speranza che di lì a poco saremmo stati di nuovo liberi e questo male sarebbe cessato. Invece sono passati i mesi, e qui intanto non cambiava niente; gli Alleati erano fermi al Garigliano e non riuscivano a passare. Bisognava pregare e così abbiamo fatto, mettendoci nelle sante mani della Madonna, affinché i soldati riuscissero a giungere fino a noi per liberarci.
E un giorno di maggio arrivarono i liberatori. I marocchini. Avevamo appena finito di dire il rosario: dal chiostro si sentivano rumori e grida, ma non era come le altre volte, quando i tedeschi decidevano di mettersi a sparare contro tutti; stavolta era diverso, ce lo sentivamo nelle ossa, ed era una sensazione agghiacciante. La madre superiora ordinò alle sorelle di andare tutte in chiesa, mentre io e lei aprivamo il portone del convento, per capire cosa stesse succedendo. Uscimmo fuori di qualche passo, e improvvisamente arrivò una ragazza del paese, precipitandosi dentro e gridando di chiudere la porta.
Era sporca di sangue e coi vestiti strappati, i capelli ridotti a una massa di terra e sangue; erano arrivati i marocchini, ci disse, stavano rubando tutto nelle case, uccidevano le persone e prendevano le donne. Ci raccontò che erano come una nuvola di cavallette che stava calando e distruggeva tutto ciò che incontrava; povera figlia, non riusciva a parlare per la paura e il dolore di quello che aveva subito.
La madre superiora disse che questa era la casa del Signore, e qui non sarebbero mai entrati. La Madonna ci avrebbe protette da questi barbari, e che dovevamo pregare. Lo facemmo certo, mentre sentivamo i loro colpi al portone farsi sempre più forti, insieme a quelle grida in una lingua incomprensibile. Capimmo di essere perdute quando alcuni di loro scavalcarono il muro di recinzione del convento e ci corsero dietro ridendo come pazzi.
Ecco, avevamo un fucile che ci era stato lasciato da un giardiniere qualche tempo prima. Dovevamo difenderci, questi qua non si sarebbero fermati davanti a nessuno e allora corsi a prenderlo. Io non ero capace a sparare, ma riuscii a colpirne uno appena entrato nel convento. Ma loro erano tanti, e noi un gruppo di suore indifese. La guerra è terribile, perché toglie l’umanità alle persone. In guerra non si conoscono fratelli né sorelle, si pensa solo a sopravvivere, e per farlo si è disposti a tutto. Anche a dimenticare quello che è successo, se può servire a evitare di impazzire, oppure a fare finta che non sia mai accaduto niente e continuare a vivere come prima, giorno dopo giorno, lavoro e preghiera, preghiera e lavoro.
Ma è la notte il momento più terribile, e i miei fantasmi mi hanno infestato per tanto tempo. Avevano i volti e le voci dei marocchini. Madre Maria Lucia mi ha incaricato di occuparmi dell’orto. È tempo di conserve, ormai i pomodori sono quasi maturi e tra qualche giorno li raccoglierò per fare la passata. Dovrò iniziare a tirare fuori i barattoli di vetro per farli bollire, e preparare tutto l’occorrente; faccio un elenco mentale mentre mi avvio verso le cucine: serviranno taglieri, ciotole, contenitori per l’acqua, qualche coltello e quei lunghi cucchiai di legno per girare il composto, che ogni anno non si trovano mai. Ah, e poi naturalmente, le pentole grandi da porre sul fuoco. Dovrò chiedere a suor Maria Grazia, che sembra possedere una mappa mentale degli oggetti. Lei sa sempre esattamente dove si trovano le cose, che siano le lenzuola o la tovaglia dell’altare o gli avanzi della cena di ieri sera. Ognuna di noi è un ingranaggio nel motore del convento: guai se un granellino di sabbia dal Sahara riuscisse a fermarlo.

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  • Registrazione Tribunale di Roma n.133/22 del 8/11/22

Direttore Stefania Catallo

Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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Emilio Spataro, in arte Emyliù, attore, chansonnier, fotografo, grafico. Di origine calabrese cirotana, vive a Roma. Opinionista e Web Master del Magazine.

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Diplomato all'Istituto Alberghiero Michelangelo Buonarroti di Fiuggi (FR) - Dopo una lunga esperienza in Italia, e all'estero come chef per personaggi di rilievo, sia in casa che su yacht, nel 2013 si è trasferito a Londra, dove ha appreso nozioni di cucina multietnica continuando a lavorare come chef privato.

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Ho sperimentato il palco cimentandomi in progetti di Teatro Sociale tra il 2012 e il 2015 con testi sulla Shoa, sul femminicidio, sulla guerra. Il mio percorso teatrale è poi proseguito in autonomia quando ho sentito il desiderio di portare in scena testi scritti proprio da me.Tutti i miei scritti per scelta hanno

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