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LE MAROCCHINATE: FRANCESCA. IL LIBRO A PUNTATE IN ESCLUSIVA

“Conta, Francesca, conta e non ti fermare: uno, due, tre, quattro, cinque…
Mentre conto sento il rumore delle pietre; mi fermo a guardarne il colore, quasi bianco con delle venature scure, e mi obbligo a non pensare che mia madre mi sta murando viva.
La guardo che ammucchia le pietre in file ordinate, mentre io resto immobile nella nicchia della cucina, quella che usiamo per riporci il pane e le poche cose da mangiare che ancora abbiamo, e che la mamma ha svuotato e dove ora ci sono io, in piedi, con la gonna legata alle gambe e un fazzoletto stretto sulla bocca per non respirare tutta questa polvere e per impedirmi di parlare; una sicurezza in più, per non essere scoperta da loro, che stanno arrivando qui e che potrebbero sentirmi.
Mamma canta piano, una canzone dedicata alla Madonna e intanto tira su il suo muro a secco. Non mi guarda nemmeno, ma la vedo piangere e asciugarsi le lacrime col dorso della mano, senza rallentare il ritmo o perdersi minimamente d’animo. Le pietre sono talmente tante che ora mi arrivano al petto, e man mano che il livello aumenta, mi sembra di soffocare, come se venissi schiacciata dal loro peso.
Per completare il lavoro, mamma prende una sedia, ci sale sopra e continua ad ammucchiare sassi: bisogna arrivare fino al soffitto. Nessuno dovrà accorgersi che questo è un muro finto e che dietro ci sono io. Solo adesso mi guarda senza dire una parola, e nei suoi begli occhi scuri ci vedo amore, paura, ma anche sfida. Poi, il buio. Devo abituare i miei occhi a questa oscurità, comandare al mio cuore di rallentare i battiti, dominare il terrore di soffocare chiusa qui, dietro questo muro di pietre.
Sento un rumore di cose trascinate, e capisco che mamma ha spostato le sedie e il tavolo verso il mio nascondiglio, e che ci sta appoggiando sopra delle trecce d’aglio e di cipolle, come se si trattasse di una parete normale, perché ne sento l’odore familiare e penetrante.
Tra una pietra e l’altra percepisco il chiarore della cucina, ma non riesco a vedere molto perché lo spazio tra di esse è stretto. Sento caldo e il sudore inizia a scendermi in rivoli dalla fronte e dalle gambe”.


“I rumori arrivano attutiti qui dietro, ma sento voci lontane e grida e spari. Sto tremando di paura, mi battono i denti dal terrore, ma devo restare vigile e immobile; se dovessi svenire cadrei in avanti facendo crollare il muro e verrei scoperta. Vorrei tanto che mamma mi avesse anche tappato le orecchie, perché quello che sento adesso è il suono dell’orrore, un rumore di corpi trascinati, di stoffa strappata, la voce di mamma che prega ad alta voce e in risposta parole incomprensibili e gemiti di sforzo, come una oscena litania in onore del signore della morte.
Non so quanto tempo sia passato, mi accorgo solo ora del sangue che mi macchia il davanti del vestito, e che mi cola dalla bocca perché nell’ora del terrore mi sono morsa le labbra, e della pozza di piscio che la terra battuta della nicchia assorbe in fretta, il segno della mia paura. Deve essere sera, perché dalle pietre non filtra nessuna luce, mentre rimango in attesa di qualcuno che venga a liberarmi dalla mia prigione.
Dalla cucina non arriva alcun suono, o forse sì; se smetto di respirare posso sentire qualcosa che assomiglia a un lamento, ma ancora troppo debole perché io possa capirne le parole. Un rumore improvviso mi fa sobbalzare: è una sedia che cade, e la voce di mamma che adesso parla e mi dice che tra poco potrò uscire, deve solo rimettere a posto un po’ la cucina e controllare che loro se ne siano andati via.
La sua voce mi fa compagnia mentre canta una ninna nanna di quando ero bambina, che mi fa chiudere gli occhi e ricordare i pomeriggi della mia infanzia, quando correvo in un campo sterminato di girasoli con le braccia aperte ad accarezzare gli steli lunghi e vellutati di quei fiori più alti di me. Sento un rumore di acqua e capisco che mamma si sta lavando.
Poi si sente entrare qualcuno, dalla voce riconosco Rosina, la signora che abita di fronte, che singhiozza disperata e poi all’improvviso tace, come se qualcuno le avesse detto di stare zitta, per pietà, che Francesca adesso non deve sentire, ci sarà tempo e voglio essere io che sono sua madre a dirglielo.
Mamma ha acceso una candela in cucina, la sua fiamma illumina debolmente la mia prigione. Ora mi parla, mi sta dicendo che tra un momento inizierà a togliere le pietre. Non ti impressionare quando mi vedrai, mi dice, ho qualche livido, ma niente di rotto, ma tempo qualche giorno e passerà tutto quanto e saremo quelle di prima. Comincio a vedere il chiarore che entra dall’alto, e ricomincio a contare: uno, due, tre, quattro, cinque.
La prima fila viene giù, poi la seconda e la terza. Respiro rumorosamente mentre mi strappo il fazzoletto dalla bocca e chiamo mamma, anche se la voce non vuole arrivare subito, ed eccola mamma è qui davanti a me che mi guarda con gli stessi occhi di sempre, anche se uno è quasi chiuso per quanto è gonfio. Ha la faccia piena di graffi e lividi e dei segni sul collo come se qualcuno avesse tentato di strozzarla. Ha messo un vestito diverso da quello di stamattina, questo è a fiori rossi e neri e profuma di sapone. Vedo che ha un ginocchio e un piede fasciati, ma sorride e canta, canta anche se ha le labbra spaccate, ma non ha importanza.
Poi prende un coltello e taglia la corda che mi teneva ferma la gonna. Mi appoggio alla sua spalla per scendere dalla nicchia, facendo attenzione a non mettere i piedi sui sassi. Tremiamo entrambe, vorrei chiederle cosa è successo, ma ci sarà tempo, me lo dirà lei se lo vorrà. Ci abbracciamo.
Mamma mi porge un bicchiere di acqua fredda che prendo con mani incerte. Poi ci sediamo a terra, io mi sdraio sul pavimento e appoggio la testa sul suo grembo mentre lei canta ancora, canta piano una canzone di vittoria dalle parole sconosciute e ci addormentiamo così, tra le pietre del muro che mi ha salvata dai marocchini”.


Durante l’avanzata dei goumiers, e a seguito delle voci degli stupri perpetrati su donne e bambine, le popolazioni elaborarono strategie difensive affinché esse non venissero individuate e catturate. Si adoperarono come rifugio le grotte naturali, sia in superficie che sotterranee; e nei casi più estremi qualsiasi nicchia abbastanza capiente fosse presente in casa, murandola con l’uso di pietre a secco e mimetizzandola in modo che sembrasse una parete normale.

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Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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Ho sperimentato il palco cimentandomi in progetti di Teatro Sociale tra il 2012 e il 2015 con testi sulla Shoa, sul femminicidio, sulla guerra. Il mio percorso teatrale è poi proseguito in autonomia quando ho sentito il desiderio di portare in scena testi scritti proprio da me.Tutti i miei scritti per scelta hanno

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