QATAR MONDIALI 2022: TRA REALTÀ E MAINSTREAM – GEOGRAFIE DELL’IDENTITÀ DI LORENZO SANCHEZ
La più grande delusione che ho dato a mio nonno è stata quella di aver dimostrato un livello di passione per il calcio pari a quello che ho per le moto trebbiatrici: praticamente nulla. Zero. Rien.
È quindi stata una grande sorpresa quando ho annunciato che sarei partito alla volta di Doha, Qatar, in occasione dei mondiali. Il calcio ovviamente non c’entrava nulla: intendevo visitare in prima persona un Paese del quale non sapevo poi molto, durante uno dei mondiali più discussi di sempre. Sono partito con una valigia piena di vestiti e – mi costa ammetterlo – di pregiudizi: serbavo già una certa idea di quel che avrei visto, delle parole che avrei sentito, delle idee che mi sarei fatto.
Diamine, non dico di essere partito pensando già di scrivere un articolo per il 25 novembre, ma poco ci è mancato.
Mentre su internet leggevo, più o meno ovunque, del clima di terrore su tifosi e giocatori in tutta Doha, le mie certezze hanno iniziato a vacillare. Hanno vacillato con intensità crescente a mano a mano che ci avvicinavamo alla data di oggi, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, mentre leggevo o ascoltavo tantissimi articoli e reportage sulla condizione delle donne in Qatar, vis-a-vis con quella delle donne nel nostro Paese.
Chiariamoci, non è mio intento qui difendere in alcun modo le condizioni e la qualità della vita delle donne in Qatar. I dati parlano chiaro: secondo le Nazioni Unite l’Italia è al 13esimo posto nell’indice sulle disuguaglianze di genere, il Qatar al 54esimo. Nello Stato in cui mi trovo, la gerarchia fortemente patriarcale – che si configura nell’esistenza della figura, come in gran parte del mondo arabo, del ‘tutore’ maschile – rappresenta il principale ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza, ed è la principale radice della violenza sistemica sul genere femminile. Una donna qatariana non può, prima di una certa età, lasciare il Paese se non con un permesso scritto; non può sposarsi o ricevere cure riproduttive complete; non può intraprendere studi avanzati e non le viene garantita la custodia dei figli in caso di divorzio. È terribile, e per questo è giusto esprimere una ferma condanna a livello internazionale.
Quel che è ingiusto, invece, è mistificare e esagerare una situazione già di per sé grave.
Stando a molto di quel che si legge sui social e attraverso gli organi di stampa, in Qatar in questi giorni si respirerebbe una feroce aria repressiva. Posso dire, dalla mia esperienza limitata, che non è esattamente così – anzi. Potrei fare diversi esempi, dalle persone mezze nude e con body painting dei colori delle proprie squadre, alle centinaia di ragazze locali – vestite in maniera non dissimile da quella di ragazze che potrebbero trovarsi a Milano, o Parigi- che lavorano, vivono e passeggiano tra le strade di Doha; potrei parlare del caotico tifo messicano, delle feste e dei cori improvvisati agli angoli delle strade, di quell’aria ‘da mondiale’ che si respira nel Paese.
Viene da chiedersi, esattamente, a chi faccia comodo esagerare e mistificare i contorni della violenza di genere in Qatar – a chi faccia comodo presentare una situazione che, per quanto radicata nella realtà, è nettamente diversa da quella presente nel Paese.
Non fa di certo comodo alle donne qatariane, che dopo decine di anni passate a lottare per i propri diritti, senza alcun tipo di riconoscimento internazionale, temono che le polemiche internazionali e la disinformazione possano causare una regressione, o la perdita dei diritti acquisiti, in un’onda reazionaria post-mondiali.
Non fa comodo nemmeno alle donne italiane: agitare e sbandierare il fatto che «alcune donne stanno peggio» è un ottimo modo per sminuire le rivendicazioni di genere e la disuguaglianza presente in Italia; è un modo per dire, tra le righe ‘ringrazia che non sei nata in Qatar, ora basta’. È un modo per evitare di riflettere sugli allarmanti numeri della violenza domestica, sulla difficoltà nel raggiungere la parità salariale, ricevere un’educazione di qualità e inserirsi nel mondo del lavoro. Curiosamente, in Qatar le donne ricevono mediamente un’educazione migliore di quella delle donne italiane, e si inseriscono più facilmente nel mondo del lavoro: al 2021, la quota di popolazione femminile sopra ai 15 anni era del 57,2%, contro il 39,9% nostrano.
Le uniche persone a cui fa comodo diffondere narrazioni mistificate e pregiudiziali sono, manco a dirlo, gli uomini (bianchi, etero, cis), che possono raccontarsi di non essere a Doha per una qualche superiorità morale intrisa di malcelata xenofobia, e non perché la nazionale di calcio, semplicemente, ha perso.
Scrivo, con più convinzione quest’oggi che mai, che per promuovere un autentico cambiamento e per permettere di uscire dalle dinamiche di oppressione che ci circondano, dalla violenza a cui ci hanno abituate e abituati, dobbiamo ritrovare modi di raccontare la complessità. Senza incedere in facili pregiudizi, senza rischiare che, pure quando animati da buone intenzioni, le nostre parole possano contribuire ad ancora più violenza, ancora più intolleranza, ancora più xenofobia. I diritti delle donne non sono armi con le quali poter colpire un Paese straniero; i diritti delle donne non sono una merce diplomatica, non sono un contenuto per i social. I diritti delle donne non dovrebbero diventare legna da bruciare sulla pira dell’islamofobia.