3 Ottobre 2023

FEMMINICIDIO

IL FEMMINICIDIO DI GIULIA TRAMONTANO. QUANDO LE PAROLE NON BASTANO

Ripercorriamo le fasi del femminicidio di Giulia Tramontano, barbaramente uccisa dal compagno perché aveva smontato il suo castello di bugie, omissioni e tradimenti. Narreremo solo i fatti, lasciando le conclusioni ai lettori, perché di questo ennesimo delitto ai danni delle donne si è detto troppo e, a volte, in modo impreciso.

In foto: Giulia Tramontano. Immagini web

Dopo che Alessandro Impagnatiello è stato arrestato per il femminicidio di Giulia Tramontano, senza che peraltro abbia chiesto pubblicamente scusa alla famiglia della vittima; dopo la dichiarazione del suo avvocato, secondo la quale: “l’unica forma di pentimento che lui (Impagnatiello, ndr) ritiene abbia un senso in questo momento è quella eventualmente di togliersi la vita“, facendo così nascere il legittimo dubbio che questa presunta volontà suicida possa ridurre la severità della detenzione facendola diventare domiciliare oppure da scontare in una struttura psichiatrica; dopo che la madre del femminicida ha accettato di rilasciare un’intervista per RAI1, nella quale tra le lacrime, ha chiesto scusa di avere dato la vita a un mostro, perché la colpa non è del femminicida, ovviamente, ma della madre; a questo punto mi pare chiaro che ci sia qualcosa che non torna. Ma occupiamoci dei fatti, e non delle supposizioni.

GIULIA TRAMONTANO E TIAGO, LE VITTIME

Giulia Tramontano, immagini web

Giulia Tramontano, quando è stata ammazzata, era incinta di sette mesi di Tiago, il maschietto che avrebbe visto la luce in estate. La sua relazione con Alessandro Impagniatiello non è semplice, ma burrascosa e minata dai sospetti di tradimento, tanto che secondo Chiara Tramontano, sorella di Giulia, sembra che scoperta la gravidanza, la donna avesse pensato di ricorrere all’aborto, tornando poi indietro sulla sua decisione. Un giorno, sembrerebbe già da gennaio, scopre senza ombra di dubbio che Impagnatiello la tradisce, ma nonostante questo decide di non interrompere la relazione.

https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/giulia-tramontano-tradimento-omicidio-ueo8io59

Si mette allora sulle tracce dell’altra donna e la trova: è una collega di lui. Anche questa ragazza è rimasta incinta di Impagnatiello, ma ha deciso di abortire. Simpatizzano e si confidano, restando in contatto. Probabilmente messo spalle al muro durante un confronto con le prove del tradimento davanti, Impagnatiello uccide Giulia con diverse coltellate, tentando di bruciarne il cadavere nella vasca da bagno; poi, viste le difficoltà, prima lo porta in un box di famiglia, dove prova una seconda volta a dargli fuoco, e poi lo carica nel bagagliaio dell’auto e lo trasporta fino all’intercapedine di via Monte Rosa a Senago in provincia di Milano, dove il cadavere della giovane donna è stato ritrovato. Nel frattempo, col corpo di Giulia in macchina, si reca dall’ex amante per dirle che la compagna se ne è andata via, lo ha lasciato, e che ora è un uomo libero e possono ricominciare da capo. La giovane non ci crede e non lo fa salire a casa sua. Poteva essere compiuto un secondo femminicidio? Non si sa. Forse.

L’ALTRA DONNA

L’altra donna, della quale non si conosce il nome, è una ragazza poco più che ventenne, anche lei impiegata nell’Armani Bamboo Bar di Milano, come il femminicida. Ignara di Giulia, la ragazza inizia una relazione con Impagnatiello e ne rimane incinta. Non vuole portare avanti la gravidanza, così lo comunica al compagno, che si mostra d’accordo. Abortisce. Quando Giulia Tramontano la contatta e le rivela di essere incinta a sua volta, affronta Impagniatiello che, magicamente, tira fuori dal cilindro un falso test del DNA che lo esclude come padre di Tiago, accusando inoltre Giulia di avere problemi mentali. Lei però non gli crede e decide di lasciarlo.

ALESSANDRO IMPAGNIATIELLO, FEMMINICIDA

Alessandro Impagniatiello ripreso da una telecamera mentre esce da casa. Immagine web

Le foto lo ritraggono con la faccia pulita e un bel sorriso, forse le armi che ha sempre adoperato per circuire quelle donne che sono cadute nella sua rete. Padre di un bimbo di circa sette anni, mentre sono in corso le ricerche di Giulia, chiama la ex compagna e chiede di poter vedere il bambino: “Voglio stare con lui”. Anche la donna ha dovuto affrontare lo stesso passato fatto di tradimenti e bugie riuscendo però a intrattenere rapporti civili con Impagniatiello. Ma stavolta cambia atteggiamento, lo vede strano e gli nega l’autorizzazione a vedere il piccolo. 

“L’HO UCCISA PER NON FARLA SOFFRIRE”

Impagniatiello ha ucciso Giulia a coltellate sabato 27 maggio tentando poi di sviare i sospetti e continuando a inviare messaggi dal cellulare della donna alle amiche e ai familiari che tentavano invano di comunicare con lei, rassicurandoli. Impagniatiello ha viaggiato col cadavere nel bagagliaio per tre giorni, fino a quando lo ha abbandonato nell’intercapedine tra due box, poco lontano da casa. Narciso o pazzo, non sta a noi deciderlo. Quello che è certo è che ha ucciso barbaramente Giulia perché lei aveva scoperto il suo castello di bugie. Non è un vero padre, tuttavia ha avuto tre figli da tre donne diverse, delle quali una ha abortito e l’altra ha visto morire il feto che portava in grembo a seguito delle coltellate subite. Non chiamiamolo pazzo, bensì col suo vero nome: femminicida. “Mentre veniva verso la sala con il coltello che stava usando per i pomodori, ha iniziato a procurarsi dei tagli sulle braccia (…) mi diceva che non voleva più vivere (…) si era già inferta qualche colpo all’altezza del collo e io arrivato vicino a lei, per non farla soffrire le ho inferto anche io tre o quattro colpi all’altezza del collo”. Così, come si legge nel decreto di fermo dei pm di Milano.

IL PARERE DELLA CRIMINOLOGA

La criminologa Roberta Bruzzone propende per la premeditazione, mentre il GIP la esclude per motivi tecnici. Tuttavia, sembra che sul pc del giovane siano state trovate tracce di ricerche in merito a come disfarsi di un cadavere dandogli fuoco. Il video che segue, tratto dal canale YouTube di Bruzzone, è interessantissimo per la sua attenta analisi dei fatti.

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L’INQUIETANTE POTERE DELLE APP DI GEOLOCALIZZAZIONE – VOCI DI SAVERIO GIANGREGORIO

ASCOLTA IL PODCAST DI SAVERIO GIANGREGORIO

Qualche giorno fa girovagando su Instagram mi sono imbattuto in una nuova applicazione, e fino qui nulla di straordinario.
La cosa che però mi ha colpito è stata la sua finalità: basta inserire il numero di cellulare di una persona cara, e l’applicazione ti dice precisamente dove si trova.


Uno potrebbe subito pensare: che forte!
Ora potrò sempre sapere dove sono i miei cari, e in caso di necessità, o anche per semplice curiosità, raggiungerli.
Tuo figlio dice che è a scuola? Grazie a questa applicazione saprai che è in una caserma dei carabinieri perché ha imbrattato i palazzi delle istituzioni. Succede, chi non è mai stato giovane e rivoluzionario?


Cerchi tuo marito perché non rientra dal lavoro?
Scopri che è presso il tabaccaio da ore a giocarsi lo stipendio ai gratta e vinci. La povertà morde, e la fortuna prima o poi arriverà.
Nel mentre ti sei ipotecato casa, ovviamente senza dire nulla a tua moglie, perché a furia di “grattare”, hai preso in prestito dei soldi dalla banca e acceso un’ipoteca sulla stessa come garanzia.


La cosa che però mi sorprende di queste nuove applicazioni, perché ce ne sono di diverse, ma che pare sia invece sfuggita ai creatori, è la palese violazione della privacy.
Infatti, potremmo in ogni istante della nostra vita essere pedinati, grazie a queste nuove app, che tra l’altro sono anche gratuite.
E qui la cosa inizia a non essere più tanto simpatica.
Anzi, dovrebbe suscitare dubbi e proteste verso coloro che creano queste potenziali nuove armi.
Si armi.

Faccio un esempio. Nel nostro Paese ogni tre giorni una donna viene uccisa da chi dice di amarla.
Il nuovo anno è appena iniziato, e c’è stato già il primo femminicidio a Genova. Queste app che ti consentono di sapere in tempo reale dove si trova la tua compagna, non solo violano la sua privacy, ma sono potenziali armi contro di lei.
Le storie finiscono, e nei casi più gravi l’amore viene sostituito dall’odio.
Odio che diventa tragedia quando la donna viene uccisa.
Spesso nelle cronache dei femminicidi si legge che la vittima è stata pedinata per giorni, sia materialmente che attraverso i social: foto, post, commenti, sono tracce che lasciamo senza sapere che potrebbero determinare, in casi estremi, anche la nostra fine.
E purtroppo succede, la cronaca in questo non è mai avara.
Mi chiedo quindi: sono proprio necessarie queste nuove applicazioni che consentono di individuare le potenziali vittime, violando la loro privacy?
Quante donne in questo modo esponiamo alla furia cieca dei loro aguzzini, ora che questi potranno usare le applicazioni di geolocalizzazione per vendicarsi, perché quello che fino a ieri era amore, oggi è odio, vendetta, follia?
Penso che sarebbe cosa buona e giusta chiuderle tutte, e pensare invece un po’ di più a come evitare che il femminicidio sia facilitato dalle nuove tecnologie.
E non a specularci sopra.

#Voci, di Saverio Giangregorio.

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SAMAN ABBAS: FINALMENTE IL PAKISTAN APRE ALLE INDAGINI SUI GENITORI

A distanza di un anno e mezzo dalla scomparsa di Saman Abbas, la ragazza di origine pachistana svanita nel nulla il 30 aprile 2021, e probabilmente uccisa dalla famiglia perché rifiutava un matrimonio combinato, il Pakistan, finalmente, ha deciso di occuparsi della questione. Maria José Falcicchia, direttrice della seconda divisione dell’Interpol, ha infatti dichiarato durante una trasmissione televisiva: “Nelle scorse settimane le autorità del Pakistan hanno recepito la fondatezza delle attività svolte in Italia dai carabinieri di Reggio Emilia e dall’autorità giudiziaria supportata dai servizi di cooperazione di polizia. Dopo una valutazione molto lunga per un caso complicato anche per loro e senza precedenti, hanno deciso di fare propria la ‘red notice’, ossia la richiesta di arresto internazionale già nel circuito Interpol, delegando le autorità di polizia del Punjab, regione dalla quale proviene la famiglia di Saman“.

D’accordo che il Pakistan è dall’altra parte del mondo, ma 18 mesi di attesa per un primo passo sono davvero tanti. Talmente tanti che, se l’attenzione non fosse stata tenuta alta, di questo caso ce ne saremmo dimenticati.

I genitori di Saman, Il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen, si erano imbarcati per il Pakistan il giorno dopo la scomparsa della ragazza, rendendosi latitanti dopo l’arresto dello zio Danish Hasnain – ritenuto l’esecutore materiale del delitto e dei cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Il prossimo 10 febbraio, comincerà il processo che vede tutti e cinque rinviati a giudizio, accusati in concorso di sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere.

I PRECEDENTI

Nazia Shaheen, madre di Saman Abbas, la ragazza diciottenne di Novellara sparita nel nulla il 30 aprile 2021, e sospettata della sua scomparsa, è stata intercettata lo scorso settembre, in una chat col figlio minore, dove ammette la complicità nel delitto.

LE INTERCETTAZIONI

Pensa ai comportamenti di tua sorella…“. La frase è riferita ai dubbi espressi dal fratello in merito alle azioni del clan familiare contro Saman. Era stato proprio lui, pare, a mostrare ai genitori una foto della sorella, ritratta mentre baciava il fidanzato. Una foto bellissima e pulita, ritratto dell’amore di due ragazzi come tanti. Però la famiglia di Saman non era come tante: ancorata alle tradizioni e fondamentalista sul comportamento che i figli dovevano tenere nei confronti dei genitori, l’avevano promessa a un altro uomo, in Pakistan. Ai nostri occhi occidentali sembrerebbe quasi impossibile, una storia medievale, ma le cose purtroppo funzionano così, in alcuni contesti. E il disonore gettato sulla famiglia a causa del comportamento di Saman doveva essere lavato col sangue.

Il fratello, che vive in una comunità protetta, ed testimone chiave dell’accusa avendo indicato lo zio Danish Hasnain come l’esecutore materiale dell’omicidio, parla con la madre di altre due persone, non indagate, che secondo lui avrebbero istigato il padre nell’organizzazione dell’omicidio della sorella. Li ritiene responsabili moralmente per la morte di Saman, ma Nazia cerca di calmarlo: “Lasciali stare. Tu non sai di lei? Davanti a te a casa… noi siamo morti sul posto, per questo tuo padre è a letto e anche la madre (parla di sé in terza persona, ndr) a letto”. E ancora: “Tu sei a conoscenza di tutto – dice Nazia al figlio –. Pensa a tutte le cose, i messaggi che ci facevi ascoltare la mattina presto, pensa a quei messaggi, pensa e poi dì se i tuoi genitori sono sbagliati…“. E il figlio risponde: “Ora mi sto pentendo, perché ho detto…“, alludendo a quanto rivelato ai carabinieri. del padre Shabbar al fratellastro, al quale ammetteva: “L’ho uccisa io. L’abbiamo uccisa noi. Per la mia dignità. Per il mio onore…“. Poi la confessione del cugino Ikram Ijaz a un compagno di cella in carcere a Reggio Emilia: “Io e mio cugino la tenevamo ferma mentre Danish l’ha strangolata con una corda“. Poi con l’aiuto di una sesta persona, un uomo misterioso mai identificato, “abbiamo caricato il corpo su una bicicletta, fatto a pezzi e gettato nel fiume Po“.

UCCISA IN QUANTO DONNA

E’ giunto il momento di chiamare le cose col loro nome, e la morte di Saman non è un delitto d’onore, bensì un femminicidio. Descrivere l’uccisione della ragazza come qualcosa legato all’onore della famiglia, ne svaluta la portata e quasi lo giustifica.

A questo scopo, è bene sapere che con legge 442 del 5 agosto 1981, si è abolito il delitto d’onore in Italia, che era contemplato e punito secondo il Codice Rocco c.p. Art. 587 del 1930:
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”.

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ERGASTOLO A PIETRO MORREALE PER IL FEMMINICIDIO DI ROBERTA SIRAGUSA

Roberta Siragusa aveva solo 17 anni, quando venne trovata morta carbonizzata in fondo a un dirupo, a Caccamo in provincia di Palermo, il 24 gennaio 2021.

Secondo Pietro Morreale, che oggi di anni ne ha 21, ed è stato condannato ieri 12 ottobre 2022 all’ergastolo per la morte di Roberta, la ragazza si era suicidata al culmine di una lite, cospargendosi di benzina e dandosi fuoco; tesi che però, non ha retto di fronte ai giudici della seconda sezione della Corte d’Assise di Palermo. Secondo la Corte infatti, Morreale colpì la giovane con un sasso e le diede fuoco, per poi gettarne il cadavere in una scarpata. La sentenza è arrivata dopo la precedente richiesta all’ergastolo fatta dal PM di Termini Imerese, Giacomo Barbara a fine luglio, e motivata dalla crudeltà e dalla premeditazione del gesto, compiuto per punire Siragusa che aveva deciso di chiudere la sua relazione con Morreale perché innamorata di un altro.

A confermare la tesi dell’accusa, una prova chiave: il video di una telecamera di sicurezza che aveva ripreso Morreale mentre assisteva al rogo della ragazza, seduto in macchina. Il giorno dopo il femminicidio, Morreale si era recato dai carabinieri per denunciare il suicidio di Roberta,

La madre di Roberta Siragusa ha commentato così la condanna all’ergastolo per Morreale: “Non avremmo accettato nulla di meno dell’ergastolo; per come ha tolto la vita a mia figlia non deve averne più una di sua. Ora la nostra battaglia per avere piena giustizia per la morte di Roberta continua, deve pagare anche chi ha aiutato Pietro Morreale a uccidere mia figlia in quella maniera così atroce“.

Le indagini infatti continuano perché, secondo gli avvocati della famiglia Siragusa, Pietro Morreale non agì da solo, e per questo si pensa all’accusa di falsa testimonianza per diversi testi portati dalla difesa.

Alla lettura della sentenza all’ergastolo per il femminicidida erano presenti i familiari di Roberta e due associazioni antiviolenza, particolare molto importante che dimostra, laddove ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza dei centri contro la violenza sulle donne e l’aiuto concreto e reale che possono dare a quante vivono e subiscono in silenzio abusi e soprusi.

SOCIAL E FEMMINICIDI – VOCI DI SAVERIO GIANGREGORIO

Ascolta l’articolo letto da Saverio Giangregorio

Social e femminicidi.

Continua la mattanza di donne uccise da parte di uomini che le considerano più come prede, che persone vere e proprie.
Il 1 ottobre 2022 è stata assassinata a Scalea(CS) Ilaria Sollazzo, 31 anni.
Assassinata dall’uomo che diceva di amarla, ma non si rassegnava alla fine di questa storia.
Ilaria lascia orfana una bambina di poco più di due anni.
Dal 2012 ad oggi uccise 1158 donne, 105 donne all’anno.
Una mattanza che non conosce soste, nonostante anche le nuove leggi approvate.
Mi riferisco al Codice Rosso, le cui pene evidentemente non bastano come deterrente come scrivevo in un precedente articolo.
Ilaria è stata braccata dal suo assassino, poi suicida, con telefonate, messaggi, social usati per studiare ogni suo passo.
Non era più una donna libera, ma una preda da braccare, appunto.
Non era più amore, ma caccia.
Perché se tu ami, accetti anche che questo amore possa finire.
Che l’altro possa andarsene liberamente e senza doversi preoccupare di essere spiato sui social, braccato come un animale in fuga.
Quindi si arriva all’assurdo che le donne oggi per poter sopravvivere alla fine di storie malate, rischiano di dover rinunciare alla loro libertà di usare i social per non dover lasciare “impronte” ai loro cacciatori.
Rinunciare a parte della propria libertà, per essere un po’ più al sicuro dall’odio scaturito per quello che pubblichi su Facebook, Instagram, Twitter, Tik Tok.
Questo è il mondo delle donne oggi.
E come se non bastasse il neo prossimo governo di Giorgia Meloni, sarà quello dove la presenza femminile è in continua discesa: su 600 eletti, solo 193 sono donne.
Il partito della futura Premier, il peggiore di tutti: su 185 eletti, solo 52 donne.
A questo calo di elette, farà seguito un maggior impegno a tutela delle donne da parte degli uomini?
Se così non sarà, vorrà solo dire che Giorgia Meloni rischia di diventare una foglia di fico di una società misogina.

Saverio Giangregorio

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QUANDO UCCIDE, NON CHIAMATELO AMORE – VOCI DI SAVERIO GIANGREGORIO

ASCOLTA DALLA VOCE DI SAVERIO GIANGREGORIO – VOCI 2

Femminicidi, in Italia:


2019, 92 donne uccise.

2020, 101 donne uccise.

2021 , 103 donne uccise.



Nel 2022, al 27 agosto siamo a 71 donne uccise; secondo alcune fonti, le vittime sarebbero addirittura 77.
Questo significa che ad oggi, e nonostante l’approvazione del Codice Rosso del 19 luglio 2019, ogni misura a tutela della donna ha fallito.
Se ogni tre giorni una donna viene uccisa, non si può che scrivere e parlare di fallimento.
Che il Codice Rosso poi non sia sufficiente a contrastare il femminicidio, lo dicono il numero delle donne uccise in continuo aumento dalla sua entrata in vigore.
Non basta aumentate le pene come deterrente per non uccidere una donna.
Alessandra Matteuzzi è stata uccisa dal suo ex fidanzato nonostante l’avesse denunciato per stalking.
E come lei, altre.
Se Alessandra Matteuzzi fosse stata invece dotata di una scorta, come chiede da anni Gessica Notaro (La Repubblica del 26 Agosto), a sua volta sfregiata con l’acido dal suo ex, sarebbe ancora viva.
Se vogliamo contrastare veramente la mattanza del femminicidio, non dobbiamo chiederci quanto costa tutelare una donna.
Il rischio di femminicidio non può essere visto e trattato come un costo per la comunità, ma come un investimento a tutela della società, prima ancora che a tutela delle donne.
Una dichiarazione su tutte, che mi ha impressionato moltissimo, è stata quella del magistrato Fabio Roia rilasciata a La Repubblica giovedì 25 agosto:”Tutte le donne che dicono no a un uomo violento oggi sono a rischio”.
Un pozzo nero senza fondo sarebbe sempre meno profondo di questa dichiarazione.
Le donne che dicono no a un uomo non devono più essere a rischio.
Per fare questo, quindi, va colmata la lacuna di operatori di polizia giudiziaria, e quella dei magistrati.
Ad oggi infatti mancano 1617 magistrati su 10558 in organico.
Il femminicidio si combatte sensibilizzando quotidianamente sul tema, e investendo in più risorse umane; rendendo i tribunali più efficienti.
La fine di una storia non deve più apparire come la fine del mondo.
Le donne non sono “nostri oggetti” che possiamo decidere anche di distruggere quando la storia finisce.
Mio non è per sempre.
Una donna che non vuole essere più “mia” ha tutto il sacrosanto diritto di continuare a vivere.
Cambiare quindi approccio, quando la donna rinuncia a continuare una relazione, deve essere il primo passo da parte dell’uomo per contrastare la mattanza del femminicidio.

Saverio Giangregorio

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  • Registrazione Tribunale di Roma n.133/22 del 8/11/22

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