LE MAROCCHINATE: LE CINQUANTA ORE E IL GENERALE JUIN
IL PROCLAMA DEL GENERALE JUIN
“Il vostro generale vi annuncia, vi promette solennemente, vi giura, sul suo onore di soldato e sulla bandiera di Francia, che si alza, per l’ultima volta, il sole sulle vostre sofferenze, sulle vostre privazioni, sulla vostra fame. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga… ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per cinquanta ore. E potrete avere tutto, prendere tutto, distruggere o portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato”.
Questo discorso, attribuito al Generale Alphonse Juen, al quale il generale Clark, a capo della V Armata americana, si era affidato per sfondare la linea Gustav, sembra fosse stato declamato ai goumiers alla stregua di un patto, che accordava loro il diritto di preda e saccheggio sulle terre che avrebbero liberato dai nazisti. Juin, in quanto pied-noir, godeva della stima e della fiducia dei goumiers, che aderirono con entusiasmo alla sua chiamata alle armi. Pied-noir è l’appellativo francese con il quale vengono indicati i figli di genitori francesi nati in nord Africa, o più in generale, i coloni francesi che vi vivevano prima della concessione dell’indipendenza alle colonie.
Il carattere sistematico delle violenze e la sostanziale acquiescenza degli ufficiali francesi che erano al comando dei goumiers conferma che essi ubbidivano a disposizioni superiori e che pertanto la responsabilità storica di questi fatti non è riconducibile unicamente a chi li ha fisicamente perpetrati.
Ascolta il proclama del generale Juin letto da Alessio Papalini


Documenti relativi al proclama del generale Juin (segnalazione di Marcello Remia)
“Bambina mia, nun pensà ca io so sempre stata accussì vecchia. So stata pure na bella giovana, tenevo gli capigli niri niri e nu petto che nun te dico, l’uommene me se giravano arrete pè guardà… ma me sa che tu nun capisci stu dialettu, n’e’ vè? Ora che ti guardo meglio assomigli tutta a nonneta. Gl’uocchi, gli capigli rusci, e la forza, la forza sua sta dentro di te. Quando sono nata io lei teneva quattordici anni, poi semmo cresciute assieme. Lei se sposette e io pure, all’epoca nostra era così, nun se scappava. Della scola m’arricuordo poco, ho fatto fino alla terza elementare e poi chiù niente, se doveva lavorà la terra e governà le bestie, poi te maritavi e tanti saluti. La casa, gli figli, lu marito pranzo cena e colazione. Bambina mia, mica era comma adess, nun se scappeva.
E dopp arrivette la guerra.
La fame ce steva, ma finchè se puteva coltivà avevamo tutto; facevo lo pane, avevamo le gagline pe l’ova, insomma se campava. Maritem se n’era ito alla guerra e io teneva già du figli da guardà.
A ventiquattr’anno i nun pensava proprio che a dà da magnà alle criature, non era comme a mò che c’avite tutto; a maggio del 44 se spasette la voce che l’alleati stevano arrivanno, e nui ce credimm, nun se poteva fa altro che crederece.
Gli alleati… ah bambina mia. Gli alleati arrivetter co le veste longhe e gli recchini agliu naso e alle recchie. Gli alleati acchiappetter le femmene e le pigliarono, vecchie giovani mezzane, tutte tutte quante. Accisero le bestie e s’arrobbarono la robba e lo corredo dentro alle case.
Appicciarono gli fuoco alle case, e si tu pruvivi a ribellarte, allora erano mazzate, tante mazzate da lasciarte muort’n terra. Nun venivano da soli, stavano in sette, otto, dieci e più. Le cavallette parevano. Le cavallette.
T’aggia guardata mentre magnivi co nui, oggi. Aggia sentito lu mestiere che fai, e quand t’aggia vista me so detta ecco Idarella, co gli uocch virdi e gli capigli rusci, ma nun era Idarella, eri tu. Me si fatta morì quanno t’aggia vista, pe lo ricordo dell’amica mia, perchè a lei aggia voluto bene come a na sorella, perchè dopp tutto è venuta Idarella da me. Doppo che gli marucchin pruvetter a prenneme, ma nun ce riusceren, pecchè m’arribbellai e allora m’acciser de mazzate.
Bambina mia vieni qua. Te facciu vedè na cosa. Me la so tenuta pe settant’anni. La tengo dentro a nu fazzoletto, a lo primo cassetto de lo commò, nascuosto bene.
Lui m’accidett de mazzate, lu marucchino, ma io gliu recchino dalla recchia ce lo strappai. Eccolo.
Pigliatell, adesso i me so’ liberata da sto male”.
Ho conosciuto Rosa per caso, a seguito di una serie di coincidenze incredibili. Questa bellissima signora di novantacinque anni mi ha voluto raccontare la sua storia in maniera spontanea, senza che io le ponessi alcuna domanda. Sicuramente la sua amicizia con mia nonna (Idarella), e la
mia somiglianza fisica con lei, hanno facilitato il dialogo creando un clima di fiducia reciproca. Ho voluto trascrivere la sua testimonianza integralmente, conservando il dialetto.
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