TIZIANA DE BIASIO, LAVORATORI GKN FIRENZE: INSORGIAMO CONTRO LO SFRUTTAMENTO E LE DISCRIMINAZIONI DI GENERE!

Raccontare la convergenza tra i lavoratori del Collettivo di Fabbrica GKN di Firenze, licenziati il 9 luglio 2021 con una mail, e gli Stati Genderali LGBTQIA+ & Disability, significa dimostrare quanto i temi di genere e della disabilità possano essere importanti e attuali, e debbano essere considerati con la dovuta importanza. Il nostro magazine, perseguendo una politica dell’informazione libera, indipendente e attenta non poteva non ascoltare le voci degli operai, riproponendole a voi lettori.

Giovedì 8 settembre si è tenuta la convergenza tra il tavolo lavoro degli Stati Genderali LGBTQIA+ & Disability e il Collettivo di Fabbrica – Lavoratori GKN Firenze. Per conto del CdF c’era presente Tiziana De Biasio. La sua lotta inizia il 9 luglio 2021: quel venerdì arriva la comunicazione della chiusura della GKN Firenze.

L’abbiamo intervistata per The Women’ Sentinel per portare la voce di una donna operaia, ancora troppo spesso inascoltata. Il suo intervento vuole raccontare una storia di lotta che è solo ai suoi inizi. Una storia che ha come protagonista una comunità unita dall’impellente bisogno di cambiare lo stato delle cose presenti, oltre che di vincere la vertenza con l’azienda.

Tiziana De Biasio, vuole raccontaci cosa è successo quel fatidico venerdì 9 luglio dello scorso anno?

Venerdì 9 luglio 2021 succede che 500 lavoratori (fra interni e appalti) vengono a conoscenza di aver perso il posto di lavoro tramite una mail. La maggior parte di noi lo ha saputo al mattino, con un messaggio della RSU inviato al gruppo Whatsapp. Si è trattato di un atto di violenza inaudito nei nostri confronti e delle nostre famiglie. E qui la nostra storia poteva seguire il corso delle decine, centinaia di delocalizzazioni e crisi aziendali che l’hanno preceduta. Non è facile cercare di indicare tutti i fattori che hanno concorso a scrivere questa pagina di resistenza operaia, ma quelli più evidenti, quelli che ti saltano all’occhio subito, sono l’abbraccio del territorio e l’alto livello di organizzazione e conflittualità della fabbrica; in una parola: il Collettivo. Quello stesso giorno la fabbrica viene occupata dagli operai. Viene chiamata subito un’assemblea aperta alla presenza della cittadinanza nella quale il Collettivo comunica la propria volontà di resistere, di opporsi ai licenziamenti e salvaguardare la continuità produttiva dello stabilimento, con gli stessi posti di lavoro e gli stessi diritti. Per farlo servirà l’impegno di tutti: ciascuno con la propria forza e la propria intelligenza. Non è una richiesta di aiuto, ma un patto di salvezza reciproco: se sfondano qui, possono sfondare ovunque; se convergiamo e lottiamo assieme, si apre uno spazio che per troppi anni è rimasto chiuso. Nella settimana successiva nasce il gruppo di supporto, cioè un’assemblea settimanale alla quale partecipa l’intera galassia della sinistra di classe fiorentina: dai collettivi studenteschi ai partiti politici, dalle realtà sindacali alle occupazioni. Se nei primi mesi il ruolo del gruppo di supporto è essenzialmente “vertenziale”, cioè di sostegno fisico e materiale alla vertenza, durante l’Autunno il supporto assumerà anche un ruolo politico di confronto e sviluppo, sia sulla vertenza e sia sul percorso di mobilitazione generale”.

Insorgiamo!” è per voi un progetto di comunità o di una nuova soggettività politica di sinistra?

“Ciò che è stato, ciò che è adesso e che in parte rimarrà, è una comunità solidale, nata attorno alla vertenza GKN. Una comunità con obiettivo chiaro: mettere da parte il vecchio ed essere il nuovo. Ci rendiamo conto di apparire sloganistici, quindi precisiamo: per vecchio intendiamo quel pesante fardello di pratiche e dinamiche tossiche, fatte di autoreferenzialità e autorappresentazione, di assenza di qualunque prospettiva reale di cambiamento, di autoriproduzione come unica necessità; per nuovo intendiamo la convergenza e l’insorgenza, un processo e un metodo fatto di confronto politico e reciproca influenza, di radicalità e di urgenza di cambiamento. Potrà sembrare fumoso, campato per aria, ma la verità è che la convergenza prima ancora di essere uno spazio teorico, è un campo fisico. In ultimo, ci teniamo a precisare che Insorgiamo ad oggi non è né un intergruppo né una struttura di coordinamento dell’esistente. Non siamo qua a preparare la nuova soggettività politica della sinistra radicale italiana, sia essa politica o sindacale. Ad oggi qualunque ragionamento di questo tipo peccherebbe di confronto con la realtà: come possiamo coordinare ciò che ancora non esiste? Quello che vogliamo è che si apra uno spazio di mobilitazione, basato sul metodo e sul processo della convergenza, costruito attraverso la campagna estiva e che si dia come ricaduta generale e generalizzata l’Autunno. La responsabilità dell’apertura di questo spazio è di tutte le realtà che compongono e comporranno questo percorso: è nostra, ma allo stesso tempo è già anche di tutti”.

Cosa avete chiesto nei vostri vari tour per l’Italia?

“Chiediamo proprio questo: chiediamo di convergere sui territori, di fare proprio questo metodo. Proprio sulla spinta della convergenza e della reciproca contaminazione siamo andati agli Stati Genderali di Bologna e abbiamo creato la giornata in GKN Firenze, perché crediamo sia fondamentale stabilire un rapporto di sorellanza e fratellanza con voi. La consapevolezza delle diverse tipologie di oppressione che viviamo deve essere primo terreno di confronto, di approfondimento dell’analisi di base sulla quale costruire metodo e rivendicazioni”.

La consapevolezza di cosa, esattamente?

“La consapevolezza che ciò che genera sfruttamento è un’oppressione dalle tante facce, che si alimentano l’una con l’altra, si rafforzano e si sostengono. Sui luoghi di lavoro, l’accumulazione del capitale si avvera grazie al lavoro produttivo e riproduttivo, salariato e non, che permette alla forza lavoro di essere fonte di valore. Ma quello che ci preme riconoscere è che tale creazione di valore, e quindi di profitto, si avvale dell’esistenza di ruoli di genere, dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, della discriminazione che invisibilizza o strumentalizza, a proprio piacimento. Sfruttamento e oppressione sono co-originari. L’oppressione determina lo stesso sfruttamento e quest’ultimo apre prospettive inedite sulla materialità dell’oppressione”.

Quali pensa che siano le cause comuni che possano unirci nella lotta?

“Esternalizzazioni, delocalizzazioni, abolizione dell’art. 18 – tra i tanti fenomeni da poter citare – hanno ricadute diverse nella classe. Non possiamo pensare di liberarci dall’oppressione senza riconoscere come le nostre soggettività e la nostra appartenenza a una certa comunità, classe, etnia, anche quando attribuite, determinino fonte di profitto, partendo dal processo basilare di accumulazione di capitale, all’accesso differenziato ai luoghi di lavoro e alle stesse condizioni di lavoro. C’è un estremo bisogno di continuare a costruire un movimento transfemminista LGBTIQAPK+ radicale e di massa che sappia trovare forza dal suo passato: un movimento che faccia tesoro delle conquiste, sottoponendo al contempo a un serio esame le carenze e gli errori della teoria e proponendo nuove strategie. Mettere da parte il vecchio per pensare al nuovo vuol dire anche ripensare insieme a una società che prenda in considerazione le esigenze di ogni soggettività. Una società che ancora non esiste, ma che abbiamo i numeri per creare”.

Durante la convergenza a Firenze ha raccontato di alcuni episodi di omofobia, e non solo, che ha potuto vedere e subire in prima persona.

“Sì, quando lavoravo a Caserta e mi occupavo di selezionare il personale ho potuto assistere a delle situazioni sconvolgenti. Ricordo diversi casi, ad esempio quello di un giovane, laureto in farmacia e gay. Questa ultima informazione per me non era rilevante. A me quel ragazzo ispirava affidabilità e proposi all’azienda di inserirlo in amministrazione, ma quello che al tempo era il padrone mi disse che non era d’accordo perché avrebbe reso di più in un ambiente femminile, dove venne collocato.

E poi ricordo un altro ragazzo, costretto a sposarsi e fare figli, costretto dal sistema patriarcale ad una famiglia tradizionale. Lui era innamorato del suo collega e ne era ricambiato, ma il loro amore non ebbe mai possibilità di essere realmente vissuto. Anche in questo caso, il suo orientamento sessuale e la sua provenienza giocarono un ruolo importante ai fini della produzione: doveva lavorare 12 ore al giorno, lo straordinario glielo davano a nero, senza maggiorazioni e con il solito monito intimidatorio: “Se non ti sta bene te ne vai“. E mi è impossibile dimenticare quando mi affiancarono a una donna lesbica, persona fortemente raccomandata: mi venne chiesto di essere amichevole con lei, così magari avrebbe lavorato e prodotto di più. Ci provò con me più volte, io le dissi di più volte no e decidemmo di rimanere colleghe che si rispettavano l’una con l’altra”.

Come donna ha subìto discriminazioni sul lavoro?

“Nel 2003 mi trasferii in Toscana con il mio compagno e mettemmo su una piccola attività di edilizia stradale. Quando parlavo con i fornitori mi sentivo spesso dire: “Ma non sarà meglio se mi fa parlare con suo marito?” oppure “Caspita! La signora conosce bene le caratteristiche di questo escavatore!”. Mi venivano poste queste domande allusive solo in quanto donna.

Nel 2011 feci il colloquio per entrare alla GKN Firenze (grande multinazionale con 600 addetti all’epoca) e fui assunta nel 2012 come Direttrice di Sito, cioè coordinatrice di tre appalti. Il responsabile dell’Ufficio Acquisti mi disse di essere perplesso dal fatto che fosse una donna a coordinare un luogo dove fossero tutti uomini e, peggio ancora, il capo del personale ribatté con: “Forse è meglio una donna, così tutti gli uomini se ne guarderanno bene prima di alzare le mani su di lei, su di una donna” e poi aggiunse: “una donna in mezzo a tanti uomini riesce meglio a farsi rispettare, ad assumere il ruolo da ‘capa cazzuta’”. Il mio compito era quello di tagliare l’alleanza che si stava instaurando tra chi lavorava in appalto e gli interni, soprattutto con le RSU. Evidentemente non ero così “cazzuta” come mi volevano loro, quindi non l’ho fatto, non ho tagliato nessuna alleanza che per me era giusta. Sono stata quindi demansionata dopo due anni e mezzo. A quel punto a una donna cosa potevano far fare? Pulire i cessi! Mi sono detta che la libertà non ha prezzo e non mi sono dimessa. Era quello che volevano e io ho iniziato a partecipare attivamente agli scioperi, ho iniziato ad aiutare chi ne aveva bisogno, mettendomi a disposizione le mie conoscenze tecniche in materia di Diritto del Lavoro. Mi sono scontrata con i padroni e non nego di essermi scontrata anche con il sindacato confederato. Pulire i bagni e attivarmi per i diritti di noi lavoratrici e lavoratori mi hanno in parte liberato dalla schiavitù del padrone. Non è stato semplice: ho subito atteggiamenti e comportamenti sessisti.

Un’altra brutta esperienza che ho avuto è connessa all’endometriosi: è stato un calvario, ogni mese, essere presente a lavoro e combattere da sola con il dolore che sentivo. I bagni vicino a dove lavoravo io erano stati assegnati agli autisti e io, per raggiungere bagno delle donne, dovevo attraversare mezza fabbrica (8000 mq di fabbrica) e arrivare al lato opposto a dove lavoravo. Cosa importava se nelle ditte in appalto vi erano donne? Tanto le lavoratrici in appalto sono lavoratrici di serie B”.

Una storia di discriminazione femminile, come quella verso la comunità LGBTQ+.

“ Vede quanta discriminazione ci accumuna?

Allora oggi più che mai “Insorgere” è una necessità!

Io mi sono chiesta da che parte voglio stare e dove voglio andare, poi la prima persona singolare è divenuta prima persona plurale: noi. Quindi noi da che parte vogliamo stare e dove vogliamo andare? È con il NOI che dobbiamo crescere a far paura a questa classe politica dirigente insipida ed individualista.

Possiamo essere noi classe dirigente: costruiamola!

Possiamo intrecciarci e formare una rete resistente. Non la banale unità di tante piccole realtà di lotta in cui ognuno ha le proprie ragioni, ma il confronto, il comprendere e far comprendere di cosa abbiamo bisogno. La nostra rete resistente dovrà essere in grado di rompere le catene del sistema capitalista e patriarcale.

Noi non siamo rimasti “chiusi” in fabbrica, siamo diventati tante piccole gocce e uniti potremo essere tempesta. Ciascuno con il proprio motto e le proprie idee da portare avanti, ma con un obiettivo unico: ribaltare questo “governo dei peggiori” e pretendere un reale socialismo”.

In conclusione: quale è il suo motto?

“Per questo, per altro, per tutto: Insorgiamo!”.

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Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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