I DIRITTI DEI LAVORATORI DEVONO ESSERE TRASVERSALI

Cosa vuol dire lavorare coi folli? Quali potenzialità esprimono i malati psichiatrici? Quali difficoltà incontrano gli operatori e i professionisti dei centri a loro dedicati? Ne parliamo con la dottoressa Alessandra Patrizi, che svolge attività di artiterapie con i “folli”.

La legge Basaglia del 1978 stabilisce la chiusura dei manicomi intesi come luoghi di reclusione e contenimento dei malati psichiatrici. Salvo rare eccezioni, finché i manicomi furono attivi, i loro ospiti venivano privati della possibilità di una crescita personale. Con la legge Basaglia, l’Italia era il primo Paese in Europa ad eradicare il manicomio, struttura che considerava irrecuperabili i suoi ospiti perché, appunto, pazzi. Senza tenere conto, poi, di quanti vennero internati perché scomodi, ribelli, diversi. Vite spezzate perché non conformi e, quindi, pericolose per la società. La chiusura dei manicomi ha dato vita a strutture che si occupano della malattia mentale, operando però tra mille difficoltà. Inoltre, viste le risorse economiche non sufficienti elargite dallo Stato, molte famiglie vengono gravate del peso del malato mentale, che così risulta privato di assistenza e può diventare pericoloso per sé e per gli altri.

ALESSANDRA PATRIZI

Alessandra Patrizi, cosa significa lavorare con i pazienti autistici e schizofrenici?

“Lavorare, ma più esattamente stare del tempo con persone che possiamo definire autistiche o schizofreniche, o con dei problemi di salute mentale, è per me una pratica quotidiana di relazione autentica fatta di fiducia, di tempo, di contatto, di pazienza. Definirei i miei ragazzi come persone con delle particolarità che sono assolutamente uniche. Per me che faccio l’arteterapeuta, è un affaccio su una parte di noi che spesso teniamo lontana, la parte irrazionale e inconscia, che però come diceva Platone, costituisce il nostro essere folle, geniale, quello che io chiamo lo scintillio”.

Quali sono le difficoltà che vivono queste persone?

“Le difficoltà che vivono questi ragazzi sono molte. Spesso sono dovute all’isolamento: alcuni rimangono fuori dall’ assistenza pubblica, ma soprattutto, la difficoltà più grande è la dimenticanza. Molte volte sono invisibili, nonostante il buon lavoro di molte associazioni e di molti operatori coi quali ho fatto esperienza. Questi ragazzi hanno bisogno di presenza, hanno bisogno dell’altro, del tempo, della costanza, di uscire nel mondo e mescolarsi: di uscire dal vecchio mito dell’isolamento e della normalizzazione. I folli devono stare nel mondo, perché hanno il loro buon modo di starci. Bisogna anche ricordare che molti partono da contesti di povertà culturale, e anche dall’assenza della famiglia. Alcuni sono accolti in case famiglia, altri che hanno genitori in difficoltà economiche importanti, vivono spesso in case che non hanno molto da offrire al loro panorama. Con loro ci vuole presenza, non bisogna dimenticarne nessuno”.

Pensa che rispetto al passato ci siano delle evoluzioni positive dal punto di vista della relazione operatore/paziente?

“Per la mia esperienza ci sono delle strutture che fanno buone pratiche: le cose sono cambiate, però rimane un aspetto critico, ossia che poco se parla nei media. Nessuno parla della follia, della salute mentale, così come non si parla degli anziani, dei disabili e, in generale, delle persone un po’ scomode Certamente ci sono delle evoluzioni positive: ho avuto modo di conoscere cooperative, associazion, operatori e professionisti che seguono queste persone, ne conoscono la storia, il nome, le loro particolarità. Il nostro è un lavoro fatto giorno per giorno, e soprattutto non bisogna dimenticare che queste persone vanno accompagnate, non possono essere lasciate da sole; vanno sempre accompagnate nel loro cammino. Il nostro è un lavoro a tempo indeterminato: i nostri ragazzi non possono essere non curati o essere dimenticati: loro esistono e hanno diritto di ben stare al mondo con una piena qualità di vita”.

Ritiene necessario un intervento istituzionale di potenziamento delle strutture esistenti?

“Io credo che, proprio parlando di qualità e di dignità di vita delle persone più fragili, spesso dimenticate, spesso invisibili – e questo vale per tutte quelle persone che non hanno accesso ad alcune possibilità – vada assolutamente potenziato il lavoro dei molti professionisti e operatori che si impegnano in questo campo, perché rappresentano una risorsa per quella che chiamiamo la società moderna. Credo inoltre che un continuo sostegno alle strutture che fanno buone pratiche sia necessario, e soprattutto incentivare e invogliare persone giovani a fare questo lavoro con amore, a entrare in questa relazione, in questo contatto, perché uno dei problemi è che spesso in queste strutture lavorano persone che stanno andando in pensione. Sembra quasi che non ci siano giovani o nuovi professionisti che abbiano la passione e la voglia di entrare in contatto con loro. C’é quindi sicuramente una necessità di formazione, di ricambio di professionisti che vogliano con amore intraprendere questo lavoro, che secondo me è un dono perché se ne esce migliorati, più umani: questa, per lo meno, è la mia esperienza”.

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Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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