GEOGRAFIE DELL’IDENTITA’ di LORENZO SANCHEZ

L’identità è una dichiarazione di guerra

Riflessioni scritte a Giugno, ma sempre attuali.

A inizio anno ho scritto una lista di «buoni e cattivi propositi». A rivederli oggi mi sento un completo idiota: per la massima parte non sono riuscito a rispettarli. Mi ripromettevo di essere più coraggioso, più autentico, di non identificarmi mai con nulla che non fosse il momento presente. E invece, tanto per cambiare, ho fatto un sacco di cazzate. Ho detto cose piuttosto spiacevoli ad alcune persone che amavo, e ne ho ricevute in cambio di altrettanto spiacevoli; non mi sono comportato sempre come avrei voluto; sono rimasto invorticato in una serie di paranoie, pensieri negativi, momenti di fragilità. Scriverlo mi costa, così come costa a chiunque ammettere di essere, in fin dei conti, meno forti di quel che si pensava.

Almeno per me, questi eventi vengono sempre associati a un inestinguibile senso di colpa. Mi chiedo perché non riesco a essere migliore? Perché non ho agito diversamente? Perché proprio io?

Questa domanda del «perché proprio io?» mi ha accompagnato per un lungo periodo della mia vita. Mi sono sorpreso a ritrovarmela in testa così, come una vecchia amica che non era mai andata davvero via. Me la sono posta per la prima volta una quindicina di anni fa, quando mi sono accorto che quel che provavo per i ragazzi non era necessariamente ciò che i ragazzi provavano per i propri amici. It’s Britney bitch – ma non ero Britney, ero solo gay. E non riuscivo a smettere di chiedermi perché fosse «capitato» proprio a me di non essere eterosessuale.

Lorenzo Raonel Simon Sanchez

Mi chiedo: quante persone si chiedono perché gli sia «capitato» di essere in un certo modo? In quante, a un certo punto, hanno pensato alla vita come a una sorta di lotteria? Una lotteria in cui se ti va bene nasci maschio, bianco, etero, cisgender, possibilmente borghese e possibilmente in una parte del mondo dove la qualità di vita (e il privilegio associato) sia elevata. Una lotteria in cui, al contrario, è possibile perdere – e perdere anche abbastanza male, mettiamola così.

Quando la perdi, questa benedetta lotteria, non c’è modo di scordarselo, visto che ti viene ricordato in continuazione. A me viene ricordato di continuo di essere stravagante, estroso, anticonformista – che poi sono spesso eufemismi per dire che sono omosessuale; mi viene ricordato di continuo di essere grasso, di essere nato in un paese diverso. A molte donne (se non tutte) viene ricordato di continuo di essere donne. La stessa cosa per le persone transessuali, per quelle disabili o neurodivergenti, per chiunque sia un immigrato, e così via. Le nostre identità «perdenti» diventano insulti, giacché non c’è nulla di più spregevole per un privilegiato che essere accostato a noialtre.

Checca. Femminuccia. Maiale. Ritard@to. N@gro. Travello. Poveraccio. Bipolare. Terrone. Immigrato.

Per alcuni recenti avvenimenti, mi sono trovato a confrontarmi con diverse persone sugli appellativi che ti vengono affibbiati – su quelle etichette che ti restano incollate addosso. Quelle narrative che sfuggono completamente al tuo controllo. Penso a tutte le mie amiche che venivano trattate come se fossero la madonna, e che poi sono state scaricate con i peggiori appellativi. Penso a me stesso, e a tutti quei lati del mio carattere che vengono elogiati finché non diventano scomodi, indesiderati, inaccettabili.

La reazione istintiva, almeno la mia, è sempre quella di cercare di riscattarmi dalle etichette. Di dimostrare che no, non sono un omosessuale stravagante, estroso, impulsivo, mezzo depresso e mezzo arrabbiato. Dimostrare che sono egualmente capace e rispettabile e che ho una tenuta morale pari a quella di chi usa la mia identità contro di me.

Mi trovo a scrivere queste righe sconclusionate sul finire di Giugno, il Pride month. E l’orgoglio non ha nulla a che vedere con quanto siamo belli. L’orgoglio non ha niente a che vedere con quanto siamo accettabili, sani, posati. Il Pride (e i diritti che vengono celebrati contestualmente) esiste grazie a Sylvia Rivera, a Stormè DeLarverie, a un mucchio di drag queen, transessuali, prostitute, persone con disagi psichici, tossici, omosessuali che hanno detto basta. Basta con la violenza, basta con la lotteria. Hanno reclamato i propri corpi, le proprie sessualità, la propria storia, e hanno detto che andava bene. Hanno detto che c’era da esserne orgogliose.

Ed è da qui che voglio ripartire. Dall’identità. E credo che sia dall’identità che dovremmo ripartire insieme.

In questo mese di Giugno, nel mese in cui tutti dovremmo trovarci per celebrarci e sostenerci a vicenda, mi è stato detto un numero imbarazzante di volte che io sono o non sono qualcosa, che il mio «bene» è (o non è) qualcosa scelto da altri. Damn it. Damn ‘em.

In questo mese di giugno, ho risposto nel modo peggiore in cui potevo: cercando di affrancarmi da me stesso. Scusandomi non solo quando avrei dovuto, ma anche quando non avrei dovuto neanche pormi il problema.

Queste righe le scrivo per me stesso, ma anche per chiunque si trovi ad attraversare un periodo come il mio: ora basta. Io sono quel che sono, senza ulteriori spiegazioni. Potrei essere anche la feccia dell’umanità, per quel che vi riguarda, e questo non mi leverebbe un’oncia di amore. Non significherebbe nulla.

Sono stufo della retorica per cui chiunque non rientri nel canone stabilito dal sessismo eteropatriarcale è accettabile solo se prova ad adeguarsi. Sono stufo della retorica sull’amore fine a sé stessa. Siamo stufe. Saremo stufe.

Le nostre identità non sono «perdenti». Sono una minaccia. E non dovremmo farci problemi a usarle come armi. Armate fino ai denti delle nostre ferite, dei nostri disagi, delle nostre differenze, dei nostri sogni e ambizioni, del veleno che abbiamo buttato giù. Non ce ne deve fregare un cazzo. Non c’è porta che possa resistere, non c’è morale che tenga, non c’è ostacolo. Inizieremo e continueremo a sederci in tutti gli spazi, a prenderci i posti che ci spettano, con i nostri corpi e le nostre teste.

Checche. Femminucce. Maiali. Ritard@ti. N@gre. Travelli. Poveraccie. Bipolari. Terroni. Immigrate.

Stiamo arrivando.

Orgoglio significa urlare al mondo che stiamo arrivando.

L’identità è una dichiarazione di guerra.

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Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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Ho sperimentato il palco cimentandomi in progetti di Teatro Sociale tra il 2012 e il 2015 con testi sulla Shoa, sul femminicidio, sulla guerra. Il mio percorso teatrale è poi proseguito in autonomia quando ho sentito il desiderio di portare in scena testi scritti proprio da me.Tutti i miei scritti per scelta hanno

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