7 Dicembre 2023

RECENSIONI

IL DISAGIO DI BARBIE, STEREOTIPO FEMMINISTA DEMODE’ @ di Emyliù Spataro

Immagini del film @Barbie di Greta Gerwig

Ascolta il podcast dalla voce di Emyliù

Continuo la rubrica di cinema del mio alter ego Mava Fankù , parlandovi del film più chiacchierato della stagione, talmente tanto attaccato da tutti i fronti sui social che era doveroso andarlo a vedere al cinema, con la speranza di smentire le opinioni dal sentore snob, il più delle volte espresse con pregiudizio senza averlo visto.

Barbie di Greta Gerwig, prodotto tra gli altri dalla Mattel, l’azienda di giocattoli che creò la bambola più famosa del mondo nel 1959, è un’operazione commerciale troppo imponente perchè il film possa risultare debole e banale ad una prima visione superficiale, condizionata peraltro da pregiudizi pseudo intellettuali, che volevano farlo passare per un pericoloso veicolo di messaggi negativi.

Ma già dopo le prime scene ci si trova davanti ad un giocattolo perfetto nella sua complessità, non concepito per un pubblico di bambini se non nell’apparente sfavillio plastico delle mirabolanti scene e fantasmagorici costumi multiaccessoriati, tripudio di rosa, come nella più lussuosa Barbieland che sia mai stata concepita.

Dunque il pubblico infantile del film, che viene portato al cinema dagli adulti, non resterà deluso nella trasposizione visiva della fiaba postmoderna di Barbie, ma la sceneggiatura su diversi piani di lettura risulterà incomprensibile sia per i bambini (sedotti però dalla forma) che per gli adulti sempliciotti e disorientati dagli inaspettati dialoghi esistenzialisti depressi di Barbie Stereotipo, interpretata felicemente da Margot Robbie, quando pone ad alta voce una domanda destabilizzante: “Avete mai pensato di morire”?

E questa inaspettata angoscia di morte porterà Barbie ad uscire dal suo mondo perfetto (una caverna rosa, metafora della Caverna di Platone, dove regna il buio dell’ignoranza), scendendo nel mondo reale diverso da come si aspettava, scoprendo di aver generato dei falsi miti diseducativi e mettendosi dunque in discussione, con il suo compagno Ken, ruolo subalterno interpretato da Ryan Gosling (blandamente da Oscar).

Interessante è la dissonanza cognitiva in cui si ritrovano i due asessuati bamboli umanizzati, confrontandosi nei due mondi paralleli. Così, mentre Barbie scopre che la sua immagine di bambola anticonformista, ha generato nelle ex bambine oramai donne degli stereotipi di genere, portandole a seguire inverosimili standard che le hanno allontanate dalla parità di genere, Ken invece, venendo da un mondo irreale che lo aveva sempre considerato “oggetto di Barbie”, scopre il patriarcato, sistema sociale che vede l’uomo protagonista assoluto, non più marginale personaggio secondario, dove il maschile assorbe il femminile, ricoprendo ruoli di potere.

E a differenza di Barbie che va in conflitto interiore, nella scoperta delle nuove informazioni del mondo reale, aiutata anche dalle donne che incontrerà durante il film, Ken si emancipa dal ruolo da comprimario, tentando di riproporre a Barbieland le idee del patriarcato che l’hanno più colpito.

Insomma, altro che film stupido e melenso! Estraggo il toccante monologo di Gloria, personaggio interpretato dall’attrice America Ferrera, che vuole evidenziare i contrasti e gli ostacoli che le donne trovano nella nostra società:

“Devi essere magra, ma non troppo magra. Non puoi mai dire che vuoi essere magra, devi dire che vuoi essere sana, ma devi comunque essere magra. Devi essere un capo, ma non puoi essere autoritaria. Devi essere una donna in carriera, ma devi anche prenderti cura delle altre persone.

Devi rispondere dei cattivi comportamenti degli uomini, il che è allucinante, ma se lo fai notare vieni accusata di lamentarti. Devi rimanere bella per gli uomini, ma non così bella da tentarli troppo, da minacciare altre donne”.

Questo film, di genere commedia drammatica con tratti da musical, offre molti spunti di riflessione e andrebbe visto al cinema, per entrare nella sua magia, e poi rivisto in streaming per studiarlo nei contenuti.

Emyliù Spataro

Emyliù Spataro

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THE WHALE. IL VOLO DELLA BALENA @ PENSIERINI FILMICI DI MAVA FANKÙ

È una bella storia di duplice riscatto, questo magnifico film ambientato in una stanza, come il miglior cinema teatro, tratto da un’omonima opera teatrale.

Il riscatto di un padre omosessuale che si sente in colpa rispetto alla vita e ad una figlia detestabile, che lo odia per aver anteposto l’amore per un suo studente a lei, abbandonandola con la madre da bambina.

Charlie, professore di inglese che da corsi on-line tenendo la web-cam spenta, si lascia andare fino a diventare obeso al limite della sopravvivenza, con picchi di ipertensione da infarto e attacchi di fame compulsiva, assistito dall’unica persona che gli è rimasta accanto: una sua amica orientale che le fa da infermiera.

E il riscatto di Brendan Frazer, protagonista di questo dramma esistenziale, che è stato un attore bellissimo da giovane, ma considerato mediocre, e che finalmente ha l’opportunità di riscattarsi con questo ruolo da Oscar.

La sua bravura interpretativa si manifesta con gli occhi, infagottato com’è in un corpo pachidermico fatto di uno speciale materiale che riproduce anche la pelle flaccida e la carne tremolante di una persona patologicamente grassa.

Potrebbe sembrare semplice, perchè è un ruolo estremo molto caratterizzato dalla invalidante obesità, ma il regista Aronofsky, dopo dieci anni di ricerche, trova l’interprete perfetto in Brendan, per dare anima e corpo a questo personaggio cristologico, redento attraverso il decadimento fisico.

Nell’intricata sceneggiatura, entrano in scena diversi personaggi che movimentano la staticità dell’ambientazione: l’amica infermiera, che è anche sorella del suo amore suicida. La figura patetica della moglie. Un pastore evangelico che cerca invano di convertirlo. E la figlia rancorosa con la quale cerca di ricucire il rapporto a cui ha rinunciato.

La Bibbia e Moby Dick fanno da contraltare e nella scena catartica del film la balena spicca il volo.

Parola di Mava Fankù

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AQUARIUS. SONIA BRAGA E IL POST FEMMINISMO MILFICO @ PENSIERINI FILMICI DI MAVA FANKU’

Continuando il viaggio nello streaming di film A.C. (Ante Corona), mi sono imbattuta felicemente in “Aquarius” di Kleber Mendonca Filho con una notevole interpretazione di un’attrice famosissima per il pubblico televisivo delle soap operas.

Sonia Braga è di una intensità commovente, e in questo ruolo prende corpo quasi come riscatto nella sublimazione magistrale delle telenovelas brasiliane (dove si parlava sempre di cruzeiros), delle quali questa oramai grande attrice anche di cinema è stata la prima e indiscussa regina.

Qui il tema ricorrente dei capitoli in cui è suddivisa la storia è la casa. La Casa intesa come identità originaria e valore primigenio da preservare, valore materiale e sopratutto affettivo. Aquarius in alcuni momenti potrebbe sembrare lento e prevedibile, ma questa lentezza, che io amo quando un film mi prende, e’ funzionale allo stile narrativo del regista.

Anzi, è proprio nella lentezza delle azioni forse prevedibili che si gustano meglio i dettagli filmici, come la consumata arte interpretativa della protagonista che raggiunge l’apice nei suoi folgoranti primissimi piani, ma anche degli altri interpreti, davvero bravi e tutti credibili, in una realistica e sorprendente cinenovela d’autore.

Via via che la pellicola scorre, tra scene quotidiane di dialoghi e confronti familiari e amicali, vien voglia di conoscere questa donna e se ne apprezza il coraggio. Clara, critica musicale in pensione, una donna imperfetta come madre e moglie, anche in un particolare del corpo per un suo male combattuto e vinto, ma integra nei sentimenti più profondi per la sua numerosa famiglia e per i suoi amori, che ha sempre anteposto sopra ogni altra cosa.

La scena di sesso con un aitante gigolò, consigliatole da una sua amica trasgressiva, può essere letta come l’affermazione di un certo “neo-post-femminismo-milfico” di quelle donne che hanno vissuto e fatto la rivoluzione sessuale alla fine degli anni sessanta, ma anche come un naturale e disperato attaccamento alla vita di una donna ancora bella ma non più giovane e sola.

Comunque girate ad arte anche le scene hard di un festino pornografico, che lei spia dall’uscio socchiuso della porta. E un mirabolante piano sequenza, degno di Antonioni, girato probabilmente con camera mobile su carrello, che parte da una coppia mentre ha un rapporto sessuale rupestre, passando sull’adiacente campo sportivo dove si gioca una partita di pallone, per poi entrare da una finestra e fermarsi sul viso di Clara, in relax su un’amaca, che illumina d’improvviso lo schermo con la luce emanata dall’incredibile volto di Sonia Braga.

Lo stabile dell’Aquarius, che titola il film, è un originale progetto architettonico degli anni 40 costruito sul lungomare residenziale di Recife, ed è oramai deserto e abitato solo da Clara e dalla sua fedele domestica.

Lei non solo si ostina a non volerlo abbandonare, malgrado le ripetute pressioni familiari e le allettanti offerte di un giovane e cinico imprenditore edile che vuole farci business ma, sostenuta da un amato nipote, inizia una vera e propria guerra contro la società che sta comprando tutti gli appartamenti del quartiere, con avvincente finale a sorpresa.

Ed è sempre l’Aquarius e la sua splendida spiaggia adiacente, l’articolato set in cui si dipana l’intricata e intrigante trama di questo bel filmone di 140 godibilissimi minuti. Fa da contrappunto una fitta colonna sonora di brani musicali dei mitici anni 80 dei quali Clara ha una ricchissima collezione di vinili, molti rarissimi e ognuno dei quali ha una sua storia ed è legato ad un suo preciso ricordo di vita. Magnifica la canzone brasiliana scelta nel finale sui titoli di coda.

Film da vedere e ascoltare.

Parola di Mava Fanku’

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LADY MACBETH @ PENSIERINI FILMICI IN STREAMING DI MAVA FANKU’

Continua il viaggio nello streaming A.C. (Ante Corona)

Un film estetico in cui ogni inquadratura è un quadro fiammingo, tra esterni in variegata luce filtrata dalla vegetazione, ed interni rischiarati dal lume di candela. Siamo ai massimi livelli di cinema formale e di rappresentazione drammaturgica.

L’incarnazione del male disegnata dal personaggio di Katherine, in teatrale metamorfosi da vittima a carnefice, ha i chiaroscuri della tragedia Shakespeariana, virati dalla reinterpretazione di un racconto dello scrittore russo Nicolaj Leskov, “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, che il regista William Oldroyd trasforma ulteriormente, ambientandolo in Inghilterra.

La trama ha un impianto Dostoevskijano, dove questa giovane donna inizialmente vittima di un matrimonio di convenienza, venduta per dei terreni, ignorata e vessata da un ozioso marito e da un genero che la tormenta con la richiesta di un erede, supera in malvagità i suoi carnefici.

Anche il bel stalliere del quale si innamora perdutamente in un vortice di nera passione, che la porta ad eliminare senza scrupoli ogni ostacolo si frapponga alla realizzazione del suo folle amore.

Scene di elegante sensualità illuminate dalle calde luci dei candelieri fanno da contrappunto all’incalzare della tragica storia, fino ad un sorprendente finale da ”delitto senza castigo” in cui il male trionfa, sotto forma di una perversa Dark Lady imbracata nella feroce corsetteria dell’epoca, rivestita da un vaporoso abito lapislazzuleo espanso su un divano vittoriano.

La giovane attrice protagonista sfrutta appieno le possibilità interpretative offerte dal magnifico ruolo, a tal punto che di sicuro la rivedremo in altre pellicole. Andate a vederlo con lo spirito che si deve avere quando si va a Teatro per un’opera importante.

Parola di Mava Fankù

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 LUCIO DALLA ANCHE SE IL TEMPO PASSA – LA MOSTRA PROROGATA FINO AL 5 FEBBRAIO

Si è aperta al Museo dell’Ara Pacis di Roma la mostra dedicata al grande artista, che comprende foto, dipinti, abiti e tanti ricordi legati al cantautore bolognese, e che sarà visitabile fino al 5 febbraio 2023.
Lucio Dalla e Roma: un grande amore iniziato alla fine degli anni ‘ 70, quando Dalla prese casa in vicolo del Buco, facendone un punto di incontro di artisti, giornalisti, musicisti, intellettuali.
“Mi stupisco sempre più del rapporto che c’è tra me e Roma. Una città
unica al mondo, un palcoscenico straordinario che unisce tutte le classi sociali, in cui non
c’è contrasto, c’è voglia di stare insieme” , così l’artista descrisse il suo rapporto con la Città Eterna.
Il visitatore ripercorrerà le tappe della vita di Dalla, dall’infanzia tra Bologna e Manfredonia; i primi passi artistici e la vitalità dell’uomo che riuscirà a cambiare la musica italiana; i sodalizi artistici, gli incontri coi grandi personaggi, il teatro, i dischi d’oro e di platino. E, alla fine, il suo sassofono, quasi a significare che tutti gli onori sono relativi e quello che resta ed è essenziale, è la musica.

FOTO DELLA MOSTRA con un brano di LUCIO DALLA dedicato a Roma – LA SERA DEI MIRACOLI

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DAHMER, LA SERIE NETFLIX OVVERO LA MOSTRUOSITA’ DEL SUPREMATISMO BIANCO

Nata dalla fantasia, si fa per dire, perché si tratta di una storia vera, di Ryan Murphy e Ian Brennan, la miniserie in onda su Netflix “Dahmer – Mostro, la storia di Jeffrey Dahmer”, ripercorre in 10 puntate la storia del “cannibale di Milwaukee”.

Chi era Jeffrey Dahmer? E’ stato chiamato in molti modi: mostro, cannibale, asociale, psicopatico. Su di lui sono stati scritti libri e graphic novels, gli psichiatri hanno fatto a gara per diagnosticargli disturbi mentali di ogni tipo; addirittura, dopo la sua morte la madre chiese che il suo cervello venisse conservato per studiare eventuali disfunzioni responsabili del suo comportamento omicida; tuttavia la realtà di Dahmer è quella di un serial killer che uccise, mutilò, smembrò e disciolse nell’acido ben 17 uomini, di alcuni dei quali conservò le teste, i teschi e altre parti del corpo in un congelatore. Il tutto, fatto in casa servendosi di coltelli elettrici, mannaie da cucina, pentole da caserma nel quale far bollire i resti, senza che la polizia intervenisse. Dahmer non è infatti una serie nata per raccontare solo i delitti, ma una denuncia del suprematismo bianco, di quanto negli anni ’80 e ’90 bastasse essere bianco affinché le forze dell’ordine non si impegnassero più di tanto per verificare un reato, soprattutto se la vittima era nero e gay.

L’attore Evan Peters interprete di “Dahmer”

Nato in una famiglia disfunzionale, con un padre spesso assente e una madre depressa, trascurato dai genitori e lasciato a vivere da solo al compimento dei 18 anni, Dahmer inizia a bere, interrompe gli studi, trova lavori e addirittura si arruola, ma nulla di questo è destinato a durare, a causa dell’alcol e delle sue conseguenze sul suo comportamento. La famiglia, o quel che ne resta, sceglie di non vedere quello che accade sotto ai suoi occhi: la nonna, dalla quale abiterà per un po’ di tempo, sembra non accorgersi dei cadaveri in cantina. Forse la necessità di mantenere un’immagine di facciata ha la precedenza sull’omicidio? Sembra di si.

Gli uomini uccisi da Dahmer, alcuni dei quali minorenni, venivano scelti tra i frequentatori dei bar gay, selezionati per il colore scuro della loro pelle e attirati con cinquanta dollari per farsi scattare delle foto in casa del killer. Qui, varcata la soglia, venivano drogati e poi uccisi.

A nulla erano valse le tante segnalazioni degli altri condomini alla polizia, affinché intervenisse per controllare, visti gli odori di morte che provenivano dall’appartamento 213. Se qualcuno bussava alla sua porta, Dahmer rispondeva che la puzza veniva da alcuni tagli di carne andati a male, che avrebbe gettato l’indomani, scusandosi con gentilezza.

L’omosessualità vissuta come una colpa da lavare col sangue e la paura dell’abbandono: queste erano le forze che armavano la mano di Dahmer. Dopo la cattura, dichiarò agli inquirenti di aver ucciso le sue vittime per tenerle con sé, per non lasciarle andare via. Erano anni quelli, in cui iniziava il dramma dell’AIDS, dove essere gay veniva vissuto come uno stigma sociale e non con la libertà, seppur imperfetta, dei nostri giorni. Dove il divario della giustizia, diversa per bianchi e neri, era ancora più ampio di adesso, e quindi la scomparsa di un ragazzo di colore era cosa di minore importanza, una seccatura da lavorare dopo tutte le altre seccature della giornata.

Le atmosfere cupe e claustrofobiche della serie insieme alla spettacolarizzazione del dolore sono le basi della sceneggiatura. Assistiamo infatti all’arrivo delle lettere dei fan, alla creazione dei fumetti che gli vengono dedicati durante la prigionia, alla diffusione dei dettagli macabri delle uccisioni. Dahmer diventa così un divo dell’orrore, un protagonista mediatico di prim’ordine. E i creatori della serie hanno puntato molto anche su questi aspetti nella scrittura dei testi.

Cosa resta di Dahmer? Nulla. Il condominio nel quale avvennero i delitti fu demolito, per paura che diventasse un set fotografico per gli amanti della cronaca nera. Il suo corpo venne cremato, i reperti trovati in casa furono acquistati dall’amministrazione di Milwaukee e inceneriti. A Dahmer venne data la damnatio memoriae.

E le sue vittime? A loro spettò l’oblio. Sul luogo della casa dove trovarono la morte, venne richiesta la creazione di un giardino della memoria, che non venne mai realizzato. Milwaukee voleva dimenticare l’esistenza di un killer bianco e delle sue vittime nere. Chissà invece cosa avrebbe fatto, se fosse successo il contrario.

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TONI EL MAT. LA MOSTRA DI ANTONIO LIGABUE A MODENA

E’ stata inaugurata il 16 settembre a Modena, presso la Galleria BPERBanca, la mostra dedicata ad Antonio Ligabue intitolata “L’ora senz’ombra”. Sarà possibile visitarla fino al 5 febbraio 2023.

Photos @AndreaTermini

Parlare di Antonio Ligabue significa anzitutto cercare di sfatare il mito del pittore pazzo e restituire al visitatore la sua dimensione umana. Sebbene l’artista subì diversi ricoveri a causa dei suoi problemi mentali, dipingendo sull’orlo della follia, “L’ora senz’ombra” intende essere un percorso artistico dedicato a togliere qualsiasi velo oscuro e preconcetto dalla sua figura, per restituire il grande pittore, colui che dietro una tecnica apparentemente semplice e naif, ha descritto il suo mondo e i suoi personaggi, le sue paure, i suoi incubi, le sue speranze.

A causa del suo carattere chiuso e schivo, Ligabue ebbe pochissimi contatti coi suoi colleghi: così, la sua espressione artistica è assolutamente autentica, genuina, non riferendosi a modelli esterni.

Nato nel 1899 a Zurigo da madre nubile, malato di rachitismo, con problemi mentali, in disaccordo col patrigno, chiuso e scontroso: Ligabue fu fortemente colpito da questo, e avrebbe potuto essere uno dei tanti ospiti fissi dei manicomi del tempo; invece, la sua genialità, scoperta dallo scultore Andrea Mozzali, che lo fece uscire dall’ospedale psichiatrico e lo ospitò a Guastalla, inizia a emergere. Ligabue dipinse quello che sognava, quello che vedeva, quello che viveva.

La mostra è divisa in tre sezioni: lo scontro predatorio, la vita di campagna e l’autoritratto.

Nello scontro predatorio, sembrano essere rappresentate le battaglie combattute da Ligabue nella vita per essere riconosciuto come uomo e non come pazzo. Come scrive il curatore della mostra Sandro Parmiggiani, l’artista dipinge “la lotta per sopravvivere o per affermarsi, in cui una vittima soccombe al carnefice e viene sacrificata; il lento cammino delle sue umane sembianze verso l’esito finale“.

Photo @AndreaTermini

Nella vita di campagna, Ligabue dipinge pace e quiete: paesetti di montagna, piccole comunità strette attorno alla chiesa di paese, quasi un riferimento alla natia Svizzera, dove visse l’infanzia che, se pur nella miseria, sembra ricordare con nostalgia.

Photo @AndreaTermini

Poi, i celeberrimi autoritratti. Antonio Ligabue ne dipinse circa 200, quattro dei quali sono ospitati nella mostra. In genere, si dipingeva di profilo, girato a sinistra ma con lo sguardo rivolto a destra. Molto suggestivo è “Autoritratto con mosche” (1956/57), dove si raffigura con gli insetti posati addosso quasi a comunicare un senso di morte, di putrefazione. Negli autoritratti si dipinge con il viso segnato, drammaticamente serio, a fissare il visitatore chiedendo di essere riconosciuto come uomo e artista, e non come folle.

L’epitaffio sulla sua tomba recita così: “Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore”.

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IL SIGNORE DELLE FORMICHE – Pensierini Filmici di MAVA FANKU’

ASCOLTA DALLA VOCE DI MAVA con Insensatez

Questa volta, nel giorno delle elezioni, parlerò di un film d’amore. E ne parlerò senza ironia. Ma perchè non era stato ancora girato un film così intenso e completo sulla repressione dell’amore omosessuale? Non un solo bacio, il sesso “contronatura” incriminato lo si immagina soltanto, mentre si racconta una storia d’amore puro e maledetto tra un professore, appassionato mirmecofilo, filosofo, drammaturgo, artista intellettuale di sinistra, ex partigiano, e il suo allievo prediletto.

Descriverò solo la scena iniziale che mostra i due amanti dormienti e teneramente abbracciati in una camera d’albergo dove alloggiano ufficialmente come “zio e nipote”. Ma l’abbraccio amoroso proibito, scoperto dall’albergatrice, viene bruscamente violentato dall’irruzione della polizia che preleva il ragazzo narcotizzandolo e il “professore delle formiche”, rivestendosi in fretta e furia per correre dietro il suo amore, si imbatte nella locandiera – una figura da maitresse – che gli sussurra con disprezzo: “pederasta”, anzi “pederasto”.

I metodi violenti per “guarire” da quell’ignominia impronunciabile che vengono praticati subito sul ragazzo “contaminato”, ordinati dalla famiglia, come l’elettroshock, fanno pensare al ventennio nero, quando “quelli così” venivano mandati al confino, ma siamo già alla fine degli anni 60, poco prima della rivoluzione studentesca del 68.

Il professor Aldo Braibanti, accusato di “plagio”, diciamolo, filosofeggia per tutto il film come se recitasse con la voce ipnotica di Luigi Lo Cascio che è magistrale, non propriamente simpatico ma attorialmente ineccepibile affabulatore, e che nelle godibili sequenze del processo da il meglio di se. Quanto li amo i processi nei film e in questo, per quanto il presunto corruttore si rifiuti stoicamente di difendersi, quando decide di parlare è un mirabile giocoliere di parole..

Elio Germano è un giornalista di “scippi e rapine” che si ritrova a doversi occupare di questo processo a qualcosa che nell’ordinamento giuridico “lasciato dal signor Mussolini non era riconosciuto, perchè se avesse condannato qualcuno per omosessualità ne avrebbe ammesso implicitamente l’esistenza, ma per gli italiani, popolo di maschi, gli “invertiti” non dovevano esistere”.

E si coinvolge a tal punto che diventa la figura positiva del film, uno dei pochi difensori di quel “Signore delle Formiche” superiore ed evitante, dopo il ragazzo martire (Leonardo Maltese) innamorato del suo professore socratico che praticamente si immola per difendere il suo amore, resistendo alle torture psichiatriche a cui continuano a sottoporlo.

Altra figura catartica del film è la madre del professore, una sorta di anziana Madonna che continua a seguire il figlio per amore durante il processo come in una via crucis. Anche se con diverse modalità ricorda la madre di Pasolini nella qualità del rapporto che ha con il figlio, che nella poliedricità da scrittore/artista/intellettuale potrebbe essere una specie di Pasolini minore, ricordandolo anche fisicamente nella nella scarna fisicità di Luigi Lo Cascio.

Il regista Gianni Amelio ha fatto proprio un ottimo lavoro, creando un film ispirato e riuscito che ha tutte le caratteristiche per ricevere importanti riconoscimenti. Andatelo a vedere ancora per pochi giorni a 3,50 euro per la settimana del Cinema. Ne uscirete ben nutriti di voglia di uguaglianza e diritti civili. Sopratutto il diritto di amare chi sentiamo d’amare. Un cameo di Emma Bonino in un flash del film per come è adesso (con turbante nei manifesti elettorali di “io sono Emma”) ci indicherà perlomeno per chi non votare… Perchè la situazione oggi è cambiata solo nella forma, ma non nella sostanza delle cose e dei pensieri, almeno per quella buona metà di elettori che voteranno per le destre repressive.

E concludo con una nota musicale, ispirata alla colonna sonora del film, ricca di canzoni dell’epoca… Insensatez, Ragazza di Ipanema, Io sono il vento, dedicandovi insensatamente la prima, cantandovela dal vivo senza artifici…

Prima Mia e poi Vostra Mava Fankù

MAVA FANKU’ CANTA INSENSATEZ
Mava Fankù Insettivora Mutante

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  • Registrazione Tribunale di Roma n.133/22 del 8/11/22

Direttore Stefania Catallo

Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

Redazione:

EMYLIU' SPATARO

Emilio Spataro, in arte Emyliù, attore, chansonnier, fotografo, grafico. Di origine calabrese cirotana, vive a Roma. Opinionista e Web Master del Magazine.

MAVA FANKU'

Opinionista disincantata, dotata di un notevole senso dell'umorismo e di una dialettica tagliente, Mava Fankù cura attualmente due rubriche, La Pillola Politica e I Pensierini di Mava, elzeviri su temi vari che ispirano la nostra signorina agèe, da poco anche in video, oltre che in podcast, oltre che in scrittura.

ALESSIO PAPALINI

Romano, educatore, formatore e appassionato di lettura e comunicazione. Attore del Teatro Studio Jankowski di Roma

PATRIZIA MIRACCO

Psicoterapeuta e giornalista. Appassionata di arte e mamma umana di Aki, una bella cagnolina a quattro zampe di 4 anni.

VENIO SCOCCINI

Diplomato all'Istituto Alberghiero Michelangelo Buonarroti di Fiuggi (FR) - Dopo una lunga esperienza in Italia, e all'estero come chef per personaggi di rilievo, sia in casa che su yacht, nel 2013 si è trasferito a Londra, dove ha appreso nozioni di cucina multietnica continuando a lavorare come chef privato.

ROSELLA MUCCI

Ho sperimentato il palco cimentandomi in progetti di Teatro Sociale tra il 2012 e il 2015 con testi sulla Shoa, sul femminicidio, sulla guerra. Il mio percorso teatrale è poi proseguito in autonomia quando ho sentito il desiderio di portare in scena testi scritti proprio da me.Tutti i miei scritti per scelta hanno

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