7 Dicembre 2023

INTERVISTE

ALESSANDRA PATRIZI. IL GRANDE DONO DI LAVORARE COI FOLLI

Cosa vuol dire lavorare coi folli? Quali potenzialità esprimono i malati psichiatrici? Quali difficoltà incontrano gli operatori e i professionisti dei centri a loro dedicati? Ne parliamo con la dottoressa Alessandra Patrizi, che svolge attività di artiterapie con i “folli”.

La legge Basaglia del 1978 stabilisce la chiusura dei manicomi intesi come luoghi di reclusione e contenimento dei malati psichiatrici. Salvo rare eccezioni, finché i manicomi furono attivi, i loro ospiti venivano privati della possibilità di una crescita personale. Con la legge Basaglia, l’Italia era il primo Paese in Europa ad eradicare il manicomio, struttura che considerava irrecuperabili i suoi ospiti perché, appunto, pazzi. Senza tenere conto, poi, di quanti vennero internati perché scomodi, ribelli, diversi. Vite spezzate perché non conformi e, quindi, pericolose per la società. La chiusura dei manicomi ha dato vita a strutture che si occupano della malattia mentale, operando però tra mille difficoltà. Inoltre, viste le risorse economiche non sufficienti elargite dallo Stato, molte famiglie vengono gravate del peso del malato mentale, che così risulta privato di assistenza e può diventare pericoloso per sé e per gli altri.

ALESSANDRA PATRIZI

Alessandra Patrizi, cosa significa lavorare con i pazienti autistici e schizofrenici?

“Lavorare, ma più esattamente stare del tempo con persone che possiamo definire autistiche o schizofreniche, o con dei problemi di salute mentale, è per me una pratica quotidiana di relazione autentica fatta di fiducia, di tempo, di contatto, di pazienza. Definirei i miei ragazzi come persone con delle particolarità che sono assolutamente uniche. Per me che faccio l’arteterapeuta, è un affaccio su una parte di noi che spesso teniamo lontana, la parte irrazionale e inconscia, che però come diceva Platone, costituisce il nostro essere folle, geniale, quello che io chiamo lo scintillio”.

Quali sono le difficoltà che vivono queste persone?

“Le difficoltà che vivono questi ragazzi sono molte. Spesso sono dovute all’isolamento: alcuni rimangono fuori dall’ assistenza pubblica, ma soprattutto, la difficoltà più grande è la dimenticanza. Molte volte sono invisibili, nonostante il buon lavoro di molte associazioni e di molti operatori coi quali ho fatto esperienza. Questi ragazzi hanno bisogno di presenza, hanno bisogno dell’altro, del tempo, della costanza, di uscire nel mondo e mescolarsi: di uscire dal vecchio mito dell’isolamento e della normalizzazione. I folli devono stare nel mondo, perché hanno il loro buon modo di starci. Bisogna anche ricordare che molti partono da contesti di povertà culturale, e anche dall’assenza della famiglia. Alcuni sono accolti in case famiglia, altri che hanno genitori in difficoltà economiche importanti, vivono spesso in case che non hanno molto da offrire al loro panorama. Con loro ci vuole presenza, non bisogna dimenticarne nessuno”.

Pensa che rispetto al passato ci siano delle evoluzioni positive dal punto di vista della relazione operatore/paziente?

“Per la mia esperienza ci sono delle strutture che fanno buone pratiche: le cose sono cambiate, però rimane un aspetto critico, ossia che poco se parla nei media. Nessuno parla della follia, della salute mentale, così come non si parla degli anziani, dei disabili e, in generale, delle persone un po’ scomode Certamente ci sono delle evoluzioni positive: ho avuto modo di conoscere cooperative, associazion, operatori e professionisti che seguono queste persone, ne conoscono la storia, il nome, le loro particolarità. Il nostro è un lavoro fatto giorno per giorno, e soprattutto non bisogna dimenticare che queste persone vanno accompagnate, non possono essere lasciate da sole; vanno sempre accompagnate nel loro cammino. Il nostro è un lavoro a tempo indeterminato: i nostri ragazzi non possono essere non curati o essere dimenticati: loro esistono e hanno diritto di ben stare al mondo con una piena qualità di vita”.

Ritiene necessario un intervento istituzionale di potenziamento delle strutture esistenti?

“Io credo che, proprio parlando di qualità e di dignità di vita delle persone più fragili, spesso dimenticate, spesso invisibili – e questo vale per tutte quelle persone che non hanno accesso ad alcune possibilità – vada assolutamente potenziato il lavoro dei molti professionisti e operatori che si impegnano in questo campo, perché rappresentano una risorsa per quella che chiamiamo la società moderna. Credo inoltre che un continuo sostegno alle strutture che fanno buone pratiche sia necessario, e soprattutto incentivare e invogliare persone giovani a fare questo lavoro con amore, a entrare in questa relazione, in questo contatto, perché uno dei problemi è che spesso in queste strutture lavorano persone che stanno andando in pensione. Sembra quasi che non ci siano giovani o nuovi professionisti che abbiano la passione e la voglia di entrare in contatto con loro. C’é quindi sicuramente una necessità di formazione, di ricambio di professionisti che vogliano con amore intraprendere questo lavoro, che secondo me è un dono perché se ne esce migliorati, più umani: questa, per lo meno, è la mia esperienza”.

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GIUSEPPE SCIARRA: IL MIO CINEMA, IL MIO IMPEGNO, LA MIA VITA

Photo @AntonellaDeAngelis

Se essere un regista non è facile, lo è ancora meno quando si trattano i temi sociali più scomodi e controversi. Giuseppe Sciarra, poliedrico e talentuoso movie director pugliese, arrivato al successo durante il lockdown 2020 con “Venere è un ragazzo”, corto dedicato alle dipendenze e al crossdressing, ha poi continuato la sua produzione con “Ikos”, opera cinematografica sul tema del bullismo, che ha dolorosamente vissuto sulla sua pelle. Ora, il regista è impegnato nell’organizzazione del festival online di corti LGBTQ+ “Gaiaitaliapuntocom Film Fest”, del quale cura la parte artistica.

Partiamo dall’inizio. Chi è Giuseppe Sciarra?

“Giuseppe Sciarra è un uomo di quasi quarant’anni, appassionato di cinema e ultimamente, anche di giornalismo. Sono una persona che cerca, che si tratti un lavoro artistico o di un articolo di giornale, di contribuire a sensibilizzare le persone su una verità, su una storia, su un accadimento che ritengo importante. Considero questo mio impegno come una missione, che da senso alla mia vita e mi permette di dare il mio personale contributo al mondo in cui viviamo”.

Il bullismo è qualcosa che ha vissuto personalmente. Cosa significa per lei subire bullismo?

“Questa è una domanda un po’ complicata a cui risponderò di pancia. Cosa significa per me subire bullismo? L’ho riscoperto recentemente, guardando i video di una trasmissione che detesto, il Grande Fratello, e che riguardavano uno dei concorrenti, Marco Bellavia. Ultimamente si è parlato molto di lui, e soprattutto del fatto che entrando nella Casa del GF aveva dichiarato di avere dei seri problemi di depressione. Le difficoltà di Bellavia non sono state però considerate nella giusta maniera e con la giusta importanza dagli altri abitanti della Casa. I media ne hanno parlato, il web si è indignato e ha chiesto l’espulsione di tutti i partecipanti: giustamente dico io, perché le immagini relative alla trasmissione che circolano su internet, sono veramente dure da digerire. Rivedendo il modo in cui Bellavia viene sbeffeggiato, umiliato, deriso e banalizzato nelle sue difficoltà dai coinquilini, ho riprovato sulla mia pelle il bullismo che ho subito da bambino. Essere bullizzati significa subire una violenza a tutti gli effetti, violenza che può essere psicologica come nel caso di Bellavia, ma anche fisica. E’ una violenza che ti rimane nell’anima, è come uno stupro: vieni violentato nella tua identità, vieni abusato e spesso con l’aggravante della superficialità. Il dramma del bullismo è proprio questo, cioé che le persone che lo agiscono a volte non si rendono neanche conto di quello che fanno, o addirittura ne sono inconsapevoli, pensando di non fare nulla di così grave, mentre invece devastano la vita degli altri con le loro azioni”.

La sua produzione artistica è molto diretta al sociale e ai diritti umani.

“Pur nascendo artisticamente in teatro, il caso ha voluto che mi appassionassi di cinema grazie a un grande regista: Ingmar Bergman. Vedendo i suoi film, sono rimasto talmente colpito da quello che raccontava e da ciò che mi suscitava, che mi sono detto: sarebbe bello fare come lui, raccontare delle storie per immagini. Così, ho iniziato a girare cortometraggi sperimentali, spesso non parlati, fatti solo di immagini e ispirati a un certo tipo di cinema, principalmente d’avanguardia. Mi piaceva il cinema inteso come flusso di coscienza, come immagine onirica senza una narrazione logica. Poi man mano, proseguendo nel mio percorso, ho cercato di fare un cinema più narrativo. Il primo esperimento è stato “Odiare”, nel quale ho trattato il tema del machismo; il passo successivo è arrivato con “Venere è un ragazzo” il corto che mi ha dato successo sul web durante la pandemia; poi, è arrivato “Ikos”, dove unisco cinema sperimentale e cinema narrativo per raccontare la mia personale storia di bullismo.

Quali sono i suoi progetti futuri?

“E’ in uscita una docuserie in sei puntate, che verrà trasmessa

su una importante piattaforma. Si intitola “L’ultima transizione: tra memoria e futuro”, in coregia con Natale e Trinelli, ed è un’ indagine giornalistica sul post Covid. Per realizzarla, abbiamo intervistato nomi importanti della politica e della cultura, come Silvia Garambois, Francesco Rutelli, Enrico De Masi, Flavia Fratello ed altri. Con loro, abbiamo affrontato vari temi in funzione del Covid: ad esempio i cambiamenti nell’economia, nella tecnologia, nel femminismo o nella green economy”.

Pensa che i diritti della comunità LGBTQ+ siano a rischio col nuovo governo Meloni, che si insedierà tra pochi giorni?

“Credo che i diritti acquisiti finora dalla comunità LGBTQ+, alla quale appartengo, siano intoccabili perché comunque tutelati a livello di comunità europea; per questo non credo che il governo Meloni potrà mettere a rischio quello che già abbiamo conquistato. Secondo me, il vero problema si verificherà sui diritti ancora da acquisire: su queste cose effettivamente il nuovo governo potrebbe intervenire, arrestando o rallentando il processo di evoluzione attuato di questi ultimi anni”.

Vuole dire qualcosa ai nostri lettori?

“Vorrei condividere l’esigenza di reagire a quello che sta accadendo in Italia a livello culturale. Viviamo in un Paese con grosse disparità sociali, dove la cultura è stata affossata, forse per renderci volutamente ignoranti. Ciò che vorrei dire ai lettori è che dobbiamo cominciare a riappropriarci di quello che ci è stato tolto a livello culturale da trent’anni a questa parte: con l’imbarbarimento dei programmi televisivi e con la convinzione che la cultura sia qualcosa da snob o da radical chic, e che basta apparire in tv per diventare qualcuno o per ottenere qualcosa, si è creato un danno sociale. Riappropriamoci della cultura, difendiamola e condividiamola, facendo capire alle persone che è una risorsa e una difesa”.

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L’IMPORTANZA DELL’APPRENDIMENTO PERMANENTE. LA PRESENTAZIONE DEL NUOVO ANNO ACCADEMICO UPTER IN CAMPIDOGLIO

Martedì 13 settembre si è tenuta al Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, la presentazione del nuovo anno accademico UPTER, presente anche il sindaco di Roma Gualtieri.

La realtà rappresentata da UPTER è quella della più storica tra le università per gli adulti e gli anziani, dove si sviluppa il lifefong learning, ossia l’apprendimento permanente.

Uscire dal sistema scolastico, per scelta o meno, non deve precludere la possibilità di continuare a imparare. Se spesso le persone dicono: “sono troppo grande per ricominciare a studiare”, ciò vuol dire che si è relegato lo studio e la conoscenza a una fase specifica della vita. E se quest’ultima si è notevolmente allungata, allora perché non approfittarne per acquisire sapere? E’ scientificamente provato che il cervello, per essere sempre lucido, deve funzionare ed essere stimolato.

UPTER ha inoltre programmato una settimana di open days, a partire da lunedì 19 settembre.

Per chi volesse conoscere la direttrice del nostro magazine, Stefania Catallo sarà presente martedì 20 settembre con la presentazione di due corsi: il primo, dalle 15, sulla Storia e simbologia dei Tarocchi. Il secondo, dalle 17 alle 18, con il Laboratorio giornalistico al femminile. Per prenotarsi, cliccare sul link (https://www.upter.it/2022/09/02/upter-aperta-lopen-day-dellupter/).

Intervista a Francesco Florenzano, Presidente dell’Upter

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Camminavo rasente i muri. Autobiografia tascabile di un transessuale

Camminavo rasente i muri. Autobiografia tascabile di un transessuale(2019, Edizioni Croce), è un libro crudo e diretto che racconta la vita e le difficoltà che lo scrittore Massimo D’Aquino ha affrontato per diventare la persona che è oggi. Chi era Massimo prima di Massimo? Quali sono i falsi miti e i pregiudizi che accompagnano le persone transessuali o in transizione? Ma soprattutto, cosa accade alle loro vite quando giungono alla consapevolezza di essere in un corpo che non li rappresenta?

Dimentichiamoci, anzi, eradichiamo le chiacchiere da bar e le leggende sulle persone T, troppo spesso diffuse. Iniziando, appunto, a considerarle come persone e non come strani fenomeni da circo, le cose cambiano per forza. D’Aquino si mette a nudo, raccontando la sua infanzia, la sua adolescenza, le sue paure, sfatando il mito della transessualità come scelta. E’ stato, il suo, un percorso durato sedici anni, per poter affermare di essere uomo a tutti gli effetti. E la strada per arrivarci non è stata pianeggiante, anzi.

Massimo D’Aquino, “Camminavo Rasente i Muri” si può considerare come la sua autobiografia, oppure è anche un’opera in grado di indicare un cammino a chi sta pensando alla transizione?

“Camminavo Rasente i Muri” è essenzialmente un’autobiografia, che racconta episodi significativi che hanno segnato la mia vita. Non è stato facile mettere tutto in piazza e con assoluta sincerità; e sicuramente scrivere è servito prima di ogni cosa, a me: è stata come una sorta di catarsi. Raccontare anche le situazioni più scomode, mi ha liberato dall’ansia che queste provocavano. Raccontare e renderne partecipi gli altri per esorcizzare paura e vergogna.

E’ un’autobiografia tascabile, come io la definisco, vista la brevità del testo, eppure dirompente. Qualcuno mi ha detto, dopo averla letta, che è stato come ricevere un pugno allo stomaco. Allo stesso tempo, credo e spero di aver instillato nel lettore un dubbio: sono io ad essere nato in un corpo sbagliato o è la società che non è pronta ad accogliermi semplicemente come persona diversa, fuori dai binari maschio/femmina?

Credo si debba cogliere, tra le righe, anche una denuncia volta a decostruire il genere, e una ferma volontà di autodeterminazione senza essere costretti a vendere o a sostituire pezzi del proprio corpo; consapevolezza, questa, che ha preso piede in me sempre di più col passare degli anni.

Molte persone che hanno letto il libro mi hanno ringraziato, dicendomi di aver trovato il coraggio di affrontare il percorso anche grazie alle mie parole; questo mi lusinga, tuttavia non ho mai pensato di poter aiutare qualcun altro scrivendo. Piuttosto, spero di aver saputo informare bene chi non sapeva davvero nulla in fatto di transizione. Leggere i miei più intimi pensieri e cercare di comprenderli da parte di chi, profano, nemmeno immaginava esistesse una simile condizione, credo possa essere utile”.

Se cresci conigli non ti puoi aspettare che diventino leoni”. Questa frase è stata pronunciata da un carabiniere, poi sospeso, in merito al ragazzino di Gragnano che sembra fosse stato bullizzato e si è ucciso quache giorno fa, gettandosi nel vuoto. Lei ha vissuto episodi simili?

“Parliamo dell’infelice frase pronunciata dal carabiniere: innanzitutto, se proprio vogliamo esser precisi, la frase espressa in italiano corretto dovrebbe essere: “se allevi conigli non puoi aspettarti che crescano leoni”, e già questo ci dà un’idea della persona he l’ha pronunciata. Secondo poi, è tipico che certe discriminazioni e vessazioni vengano spesso fatte da chi crede, forse per il ruolo che riveste, di potersi permettere di giudicare. Certo che ho subito atti di bullismo, soprattutto bullismo “istituzionalizzato”, cioè da parte di persone che, stando dietro ad uno sportello o, per l’appunto, rivestendo un ruolo, hanno pensato bene di potersi permettere battute ironiche o, peggio ancora, insulti diretti.

Essere fermato ad un posto di blocco per un normale controllo e subire veri e propri interrogatori riguardo all’aspetto non conforme ai documenti, per esempio, è una cosa che mi creava problemi d’ansia ogni qualvolta ero costretto ad uscire, e moltissime volte ho assistito a scene in cui, anziché cercare di comprendere la mia condizione, mi facevano sentire oggetto di curiosità morbosa e di derisione. Se questo poi succedeva mentre ero in compagnia di qualche amica, cadevo in uno stato misto tra depressione e rabbia. Ho iniziato il percorso di transizione nel 1988 e ho avuto i nuovi documenti nel 2004, ed è quindi facile immaginare cosa ha significato per me vivere in un limbo per tutti quegli anni; ancora oggi nutro una marcata idiosincrasia per i simboli del potere”.

Quanto e cosa c’è ancora da fare per le persone LGBTQ+?

“L’unica possibilità che abbiamo è divulgare il più possibile la conoscenza dell’argomento. Parlarne tanto e soprattutto correttamente. Qualche passo in avanti è stato fatto, e rispetto agli anni ’70 e ’80, ora le persone transgender non sono più sole; per fortuna, esistono parecchie associazioni che intervengono in difesa delle persone T. Purtroppo mi rendo conto, parlandone spesso e con chiunque, che la non conoscenza è diffusa e spesso si fa molta confusione parlando di mondo LGBTQ+. Le persone trans sono in netta minoranza rispetto alle persone gay, e le nostre istanze sono completamente differenti. Siamo una minoranza nella minoranza e spesso veniamo strumentalizzati da chi, pur di ottenere bonus statali o accedere a bandi, accoglie frange trans, senza però dar loro reali possibilità di agire”.

Ritiene che l’Italia potrà fare di più, nel prossimo futuro?

“No, finché non verrà scritta e approvata una legge sull’identità di genere; e ora come ora, vista anche la situazione politica, la vedo davvero dura. Paesi come la Spagna, Malta, l’Islanda e altri, sono decisamente più avanti dell’Italia rispetto alle questioni di genere. Abbiamo assistito a quello che è successo riguardo alla legge Zan; addirittura, al tempo, insieme ad altre persone LGBTQ+, venni interpellato dall’onorevole Mara Carfagna per esprimere il mio parere sulle questioni di genere, e poi? Il nulla più totale. Sono quasi trent’anni che lottiamo per avere una legge e per riformulare la 164 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1982/04/19/082U0164/sg) , ormai obsoleta: pare che ci sia sempre qualcosa più importante e urgente della tutela delle persone T”.

Vuole aggiungere qualcosa per i nostri lettori?

“Vorrei che “Camminavo rasente i muri” fungesse da input per voler conoscere di più la nostra condizione; un punto di partenza per entrare in un mondo, quello T, a tutti gli effetti straordinario. Nascere trans dà l’opportunità di decostruire il genere; rompere il binarismo imposto da una società che, da sempre, ha diviso il mondo in due: maschio o femmina. Così non è e, per fortuna, e non sono il solo a pensarlo. Confido molto nei giovani. Le nuove generazioni hanno una visione del mondo molto più ampia, e hanno capito che l’esistenza non è una linea dritta e definita dove ci stanno solo maschi e femmine, ma un cerchio dove possono e devono vivere tutte le possibili immaginabili ed inimmaginabili sfumature, senza che nessuno tolga nulla a qualcun altro.

I conigli possono diventare e sentirsi leoni”.

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IL TALENTO DI MRS. LOIODICE – I DIPINTI, GLI OGGETTI, I MURALI DI TINA LOIODICE

La tigre disegnata da Tina Loiodice guarda intensamente i passeggeri, dal muro della stazione San Giovanni della metropolitana di Roma. Gli occhi del felino sembrano invitare a non abbassare mai la guardia, mentre al piano di sotto “Matrix divina”, una donna dai tratti botticelliani accompagna la discesa alle scale mobili. Ma queste non sono che due delle tante opere nate dal talento e dalla fantasia di Tina, artista capitolina con all’attivo una lunga carriera e tante collaborazioni importanti, ad esempio con Fendi, per la quale ha creato e dipinto dei ventagli realizzati come omaggio alle signore intervenute all’inaugurazione dello store di Forte dei Marmi, un paio di anni fa.

Martedì 23 agosto si terrà il vernissage della collettiva “Roma in 100 cm quadrati”, che l’artista propone con successo da molti anni. La mostra si è tenuta anche nel 2020, annus horribilis della pandemia, quando sembrava che le arti fossero state quasi accantonate in nome di altre, più pressanti, esigenze. Ma niente ha la capacità di continuare a vivere come l’arte, e seppur tra molte difficoltà, ha resistito e portato frutto.

Tina Loiodice quali sono stati secondo lei i cambiamenti nell’arte, durante e dopo il Covid?

“L’esperienza del Covid, così inaspettata e unica nella sua drammaticità, ha inevitabilmente segnato e cambiato ognuno di noi. Per gli artisti di ogni settore è stato un periodo di fermo forzato, di tempo sospeso che ci ha dapprima scioccato e poi immobilizzato. Ma l’arte non è fatta per stare a guardare: è partecipazione, è dirompente, è vita e ha bisogno di esprimersi. Dopo un primo momento di insolita e innaturale stasi, è tornata a farsi sentire e vedere; gli artisti hanno utilizzato il web, e alcuni street artist hanno continuato le loro incursioni sui muri immortalando, come Harry Greb ha fatto su un muro di Trastevere, la nuova condizione di reclusi in casa degli umani, subito dopo il decreto della chiusura: mettendo in gabbia gli uomini, e fuori un panda libero che li guarda.

Anche per molti altri artisti, il tema della pandemia e i simboli in cui è identificata sono diventati il tema principe: abbiamo visto più mascherine dipinte sui muri che per terra. Il post Covid ha poi visto un’intensa attività artistica, e c’era da aspettarselo: la ripresa dei festival di street art è vivacissima e sta producendo lavori notevoli dove il tema della rinascita, dell’attenzione alla salvaguardia del pianeta, fino ai temi di attualità è molto intensa. Il Covid è stato uno shock e l’arte sta rispondendo con una produzione senza pari e di qualità”.

Come nasce la sua arte? Quali sono gli artisti ai quali si ispira?

“Io amo definire la mia arte emozionale. Per me ogni luogo ha una sua storia, una sua essenza, quella che i romani definivano genius loci ossia lo spirito del luogo. Quando devo intervenire su un muro, l’ emozione che mi trasmette il luogo diventa l’energia trainante e ispiratrice che mi guida prima nella stesura del bozzetto, e poi nella sua realizzazione. Nutro un rispetto profondo per i luoghi e i loro abitanti: il mio intervento deve essere armonico e integrato al contesto, qualunque sia il tema trattato. Non mi ispiro a un artista in particolare: amo studiare l’arte di tutti e spesso, per capirne l’essenza e il processo di esecuzione, seguo uno studio di copiatura per capire la composizione e le stesure di colore con cui l’autore ha realizzato la sua opera. Mi immedesimo nei suoi gesti e a volte rielaboro con mie interpretazioni gli originali. E’ così che sono nati i miei Pinocchi d’autore”.

Secondo lei l’arte riceve un’attenzione sufficiente da parte delle istituzioni?

“La mia risposta è già in parte nella domanda: è proprio quel sufficiente che ci dice già molto. Comunque, negli ultimi anni l’interesse delle istituzioni si è inevitabilmente acceso verso il mondo della street art, che è diventato un movimento artistico universale come mai era successo per altri precedenti movimenti artistici. La regione Puglia per prima, e a seguire la regione Lazio, hanno studiato e varato una legge regionale che con bandi pubblici finanzia e regolamenta i progetti artistici di street art. Riguardo alla regione Lazio, grazie al progetto “Selci visionaria”, ho creato il mio ultimo murale intitolato “Le radici dell’olivo”, vincitore del bando regionale “Un paese ci vuole”.

Come voto, siamo comunque ancora al sufficiente, ma molto ci sarebbe da fare per sostenere l’arte e gli artisti: in altri Stati europei, senza andare troppo lontano nel mondo, gli artisti sono considerati delle risorse per la cultura e la crescita del Paese, e ricevono sussidi o veri e propri stipendi per portare avanti la loro ricerca e produzione artistica.

Roma in 100 cm quadrati” è la mostra che lei inaugurerà il 23 agosto a Roma. Come è nata l’idea di questo evento?

“La mostra “Roma in 100 cm quadrati” è arrivata già alla sua ottava edizione; l’idea nasce a Trastevere otto anni fa, in quello che fino a prima della pandemia era il mio spazio atelier, ossia la galleria Spazio40. All’epoca io realizzavo delle piccole tele 10×10: da qui il titolo, perché 10×10 fa appunto 100 cm quadrati. I dipinti erano dedicati a Roma e ai suoi monumenti, e riscuotevano un notevole interesse da parte dei nostri visitatori, per lo più turisti internazionali. Ne avrò riprodotti a centinaia, perciò ho pensato: perché non chiedere a altri artisti di cimentarsi nel piccolo formato a tema Roma e farne una mostra che diventi un appuntamento annuale? E così è stato. Ogni anno il tema è su Roma, ma anche su avvenimenti che hanno interessato la città, come quando, nel 2016, il M5S vinceva le amministrative a Roma e Raggi diventava sindaca: il titolo della mostra fu “Roma sotto le Stelle” . Nel 2017, anniversario della nascita di Roma, la mostra esponeva il numero 2770, appunto gli anni di Roma. Poi, legata al tema del Coronavirus, facemmo “Roma in 100 cm quadrati al tempo del Coronavirus” e nel 2021 “La resilienza”. Quest’anno riproporremo il tema classico e vedremo cosa proporranno gli artisti in questa occasione”.

La mostra “Roma in 100 cm quadrati” sarà inaugurata martedì 23 agosto alle 19 presso la Galleria Il Laboratorio in via del Moro 49 a Roma Trastevere. Successivamente, il 9 settembre alle 19 ci sarà una seconda inaugurazione, presso Z A Urban studio in via degli Equi 44 a Roma San Lorenzo, dove le opere saranno presenti fino al giorno 17 settembre.

Stefania Catallo

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IL RECUPERO DELL’ESSENZIALE DI MICHELA ZANARELLA

Abbiamo incontrato la poetessa per parlare della sua ultima raccolta di versi e di come la Poesia le abbia cambiato la vita

di STEFANIA CATALLO

Juan Gelman, il celebre poeta argentino, rispose ad un’intervista sulla poesia con questa frase: “Il problema è che non si scrive mai poesia, si viene scritti dalla poesia. La poesia è una signora molto occupata, poiché ci sono poeti dappertutto. Bisogna aspettarla, non chiamarla. Non è questione di pazienza o di volontà. Si tratta di attendere che arrivi con ciò che ho chiamato ossessione”.

E l’attesa dell’ispirazione può essere anche molto lunga, così come possono rivelarsi tortuose le strade che portano un poeta alla creazione.

Michela Zanarella

Michela Zanarella, poetessa e giornalista veneta di nascita e romana di adozione, .ha trovato la sua ispirazione scrivendo “nelle pause pranzo di lavoro; ero impiegata in un mattatoio e scrivere poesie mi ha aiutato a uscire da quella dimensione così brutale”. A tutto questo, si è poi aggiunto un incidente stradale che l’ha costretta a una lunga convalescenza, ed è stato allora che la Poesia le ha fatto visita.

In Italia le raccolte di versi rappresentano una nicchia editoriale; a parte i grandi nomi, emergere non è facile, così come accade per la letteratura, laddove gli editori preferiscono non rischiare e pubblicare opere di richiamo e di sicura vendita. Ma nonostante questo, Zanarella è diventata un’autrice prolifica e seguita, disponibile al dialogo col pubblico pur conservando la sua riservatezza caratteriale, tipica dei poeti.

Recupero dell’essenziale” (2022, Interno Libri) è l’ultima opera della poetessa, ed ha una genesi molto originale.

Michela Zanarella, come nasce il suo ultimo libro, e cosa significa il suo titolo?

“A causa di un guasto al computer, avevo perso improvvisamente tutta la produzione inedita di poesie che avevo composto durante la pandemia. Non era valso a nulla cercare di recuperare qualcosa: il disco rigido era danneggiato e così se ne andava in funo un anno e mezzo di lavoro. Fortunatamente però, mi sono ricordata di aver inviato ad alcuni amici diverse poesie di quelle andate perse, e così pian piano ho potuto ritrovare qualcosa. “Recupero dell’essenziale” è perciò un titolo indicativo del lavoro di pazienza e riacquisizione che ho fatto per pubblicare questa raccolta”.

Qual è il filo conduttore di “Recupero dell’essenzale”?

“Il libro si divide in quattro parti. La prima, è dedicata all’osservazione del cosmo e dei cambiamenti della natura avvenuti durante la pandemia. La seconda parte verte sulla notte e sulla sua luminosità, che accende il buio di speranza. Al Veneto, la mia terra, è dedicata la terza parte della raccolta, che ha dei riferimenti anche a Roma, la mia città di adozione. Infine, ho dedicato dei versi a grandi poeti come Pier Paolo Pasolini, Rafael Alberti, Garcia Lorca e anche ad Oriana Fallaci”.

Michela Zanarella

Quali sono i poeti dai quali trae ispirazione?

“Emily Dickinson, che con le sue opere supera il tempo ed è sempre molto attuale, mi ha ispirata per la potenza dei suoi versi. Il fatto che poi fosse relegata nella sua stanza e comunque riuscisse a descrivere alcuni luoghi come se li avesse visti, per me è straordinario. Poi, Pasolini, col quale trovo delle somiglianze per quanto riguarda il mio percorso, che mi ha portata dal Veneto a Roma, che è speculare e opposto al suo. Per una coincidenza, vivo nel quartiere di Monteverde, luogo pasoliniano, dove ho conosciuto anche Silvio Parrello detto Er Pecetto, artista cresciuto con lo scrittore e inserito in un capitolo del famoso libro “Ragazzi di vita”. Per me Pasolini non è solanto un’ispirazione poetica, ma anche giornalistica: come non ricordare il celebre articolo scritto per il Corriere della Sera del 14 novembre 1974 e intitolato “Cos’é questo golpe? Io so”, col quale ci ha dato una grande lezione di coraggio”.

Secondo lei la poesia è un linguaggio universale?

“Si, senza alcun dubbio, Ne ho avuto la prova pubblicando una raccolta di poesie intitolata “Infinito celeste” (2020, Universitalia), che sono state tradotte in arabo da Noureldeen A. M. Addallah, professore di lingua e traduzione dall’arabo/italiano e viceversa, e caro amico. Le traduzioni sono sempre molto difficili perché si può perdere qualcosa nel passaggio da un idioma all’altro, ma la riuscita di quest’opera è la dimostrazione del linguaggio universale della poesia”.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

“Sto programmando delle presentazioni e, intanto, continuo a scrivere”.

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AFGHANISTAN OGGI: NON E’ UN PAESE PER DONNE

L’Afghanistan del 2022 e le donne: con l’intervista a Samira, profuga a Roma, continua il viaggio del nostro magazine nella realtà di un Paese da un anno in mano ai Talebani.

Samira – nome di fantasia per proteggerne l’identità – è una delle donne che sono riuscite a uscire dall’Afghanistan nell’agosto del 2021, prima della chiusura degli aeroporti e dell’abbandono del Paese da parte delle forze internazionali. Abitava a Kabul, dove lavorava ed è arrivata in Italia con un volo umanitario e fa parte di un gruppo di persone che vivono a Roma. Malgrado la distanza, si batte per quelle donne che sono rimaste nel Paese, ormai da un anno sotto il dominio talebano. Le parole sono importanti, e Samira ha scelto di parlare di dominio e non di governo perché, dice: “Noi non abbiamo più diritti, stiamo diventando invisibili e questa non è la democrazia che i Talebani avevano dichiarato di voler istituire nella nazione”.

Le donne afghane rifugiate in Italia non hanno molta voglia di parlare. Si temono ritorsioni verso le famiglie restate in patria: ci sono stati già molti arresti e pestaggi. Per questo la testimonianza di Samira è preziosa.

Un anno fa, Kabul era una città vivace. Niente a che vedere con una città europea, però era pur sempre una capitale ricca di storia e cultura, sede di scuole e università, dove negli ultimi venti anni si erano consolidati diritti fino a quel momento impensabili per una donna. Le cose però erano, e sono tuttora, diverse nelle aree interne e rurali, laddove il fermento culturale non era arrivato; in quei luoghi sembra che non ci sia stato cambiamento alcuno, come se i secoli non fossero passati e il tempo sia solo un’espressione linguistica. Ora, a un anno dall’insediamento dei Talebani, le cose sono molte diverse. Le donne sono state spogliate dei diritti acquisiti e fatte regredire di decenni, in nome dell’ integralismo, quando invece si tratta solo di sopraffazione e misoginia. Tutto il contrario di quello che avevano dichiarato i Taliban, quando avevano parlato di una nuova e moderna generazione al potere.

Roma – Afghanistan Black Day

Samira, qual è la situazione in Afghanistan, oggi?

“La situazione è molto grave, e quel poco che trapela all’estero non basta a descriverla. Se parliamo delle donne, delle mie sorelle, delle afghane, ci sono stati tolti i diritti fondamentali. Il diritto allo studio è stabilito solo fino a poco più delle scuole medie italiane. Dobbiamo indossare sempre il velo integrale; possiamo lavorare solo come medico o infermiera, e neanche in tutti gli ospedali. Non possiamo più uscire dal sole se non accompagnate da un mahram, ossia un parente di sesso maschile. Ci è proibito ridere, ascoltare musica, andare in bicicletta, fare sport. I Talebani ci hanno paralizzate e noi non possiamo cambiare la situazione, da sole. L’Afghanistan non è più un Paese per donne”.

Le proteste che abbiamo visto sulle televisioni hanno avuto delle conseguenze?

“Si. Le donne che hanno sfilato per rivendicare i loro diritti sono state perseguitate dai Taliban. Alcune sono state portate in carcere, picchiate e minacciate di morte assieme alle loro famiglie. Ci provano a resistere, ma è molto dura”.

Avete ricevuto sostegno dalla comunità internazionale?

“(Ride) Sostegno? Se intende quello delle persone comuni e di organizzazioni civili come Emergency, Amnesty e quelle per i diritti delle donne, allora si, lo abbiamo avuto. Però il sostegno non c’è da parte dei governi mondiali. Si sono dimenticati di noi, oppure fanno finta di non vedere perché qui hanno i loro interessi. Quando i Talebani hanno preso l’Afghanistan hanno promesso di aiutarci, hanno detto che avrebbero tenuto la situazione sotto osservazione, che non ci avrebbero abbandonato e che si sarebbero battuti affinché nessun diritto conquistato dalle donne venisse calpestato. E invece siamo prigioniere nelle nostre case, nella nostra terra, dimenticate”.

Vuole mandare un messaggio alle nostre lettrici e ai nostri lettori?

“Non so quanto verrò ascoltata, però vorrei dire: non dimenticateci. Non lasciateci da sole, fate informazione, parlate di noi, partecipate ai nostri sit in, altrimenti saremo destinate a scomparire”.

Stefania Catallo

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ELEZIONI POLITICHE 2022: E I DISABILI? INCONTRO CON LAURA COCCIA (PD)

Essere disabile comporta una serie di grandi difficoltà che non riguardano solo la sfera lavorativa, ma anche la famiglia, la genitorialità, la mobilità. A sei settimane dalle elezioni quali sono le proposte sul tavolo degli elettori?

Nell’incessante susseguirsi di dichiarazioni e proposte da parte dei vari partiti – non dimentichiamoci che le elezioni del nuovo governo ci saranno il 25 settembre, cioè tra poche settimane –, non sembra esserci ancora nulla di rilevante riguardo alle politiche sulla disabilità.

La coalizione di centrodestra, ha elaborato un solo punto programmatico, inserendolo nell’ambito delle politiche del lavoro, che recita così: “Controllo sull’effettiva applicazione degli incentivi all’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro” (https://www.money.it/programma-elettorale-centrodestra-elezioni-politiche-2022).

Il PD, nella sezione di programma chiamata “Avanti sui diritti civili”, dichiara genericamente di volersi impegnare a contrastare le disuguaglianze, facendo riferimento alle politiche di genere e al DDL Zan, ma senza particolari riferimenti alle disabilità (https://www.partitodemocratico.it/partito/vincono-le-idee/).

Il Movimento 5 Stelle invece, pare essere più preciso e orientato all’inclusione sociale dei diversamente abili; resta da vedere però se la creazione del Terzo Polo vedrà tutte le parti d’accordo su questo punto.

Tuttavia rimane però basilare comprendere come vive una persona con disabilità, e quali e quante difficoltà comporti esserlo.

Difficoltà che non riguardano solo la vita del singolo individuo, ma anche quella del suo nucleo familiare e della comunità, con ripercussioni anche gravi. Basta pensare a cosa significa per un disabile non poter usufruire dell’ascensore e quindi dover essere costretto in casa: guasto che accade spessissimo negli immobili di edilizia popolare. Oppure, dover affrontare il percorso a ostacoli delle strade, dei luoghi pubblici o delle stazioni della metropolitana dove i saliscendi per le carrozzine raramente sono funzionanti. Le disabilità psichiche poi, necessitano di fondi e programmi precisi e specifici, spesso insufficienti, per non gravarne il peso sulla famiglia.

Pensiamo poi al “dopo di noi”, ossia alla preoccupazione dei familiari più stretti della persona disabile, che devono organizzarsi per tempo affinché il loro caro possa godere delle cure necessarie quando loro non saranno più in vita. O al sacrificio richiesto quando la cura del disabile è a carico di un familiare, che se ne deve occupare 24 ore al giorno.

E di tutto questo pare non ci sia traccia nei programmi elettorali 2022.

LAURA COCCIA – DEPUTATO PD

Laura Coccia, ex deputata PD nella scorsa legislatura, ha le idee molto chiare in proposito. Già atleta paraolimpica, storica e attivista per le disabilità e le donne, è mamma di un vivace maschietto di tre anni. La sua maternità è stata un percorso a ostacoli, sia per le patologie pregresse sia per le difficoltà oggettive che ha incontrato come portatrice di handicap. L’abbiamo incontrata per avere la sua opinione sui programmi elettorali che riguardano le disabilità, e sull’effettiva possibilità che poi essi diventino realtà. Con la sua consueta concretezza, ha tracciato un quadro molto preciso di quella che è la situazione effettiva in Italia.

Laura Coccia, il 25 settembre ci saranno le elezioni politiche. Qual è il suo punto di vista sul panorama attuale, con riferimento ai vari programmi elettorali?

“Il momento politico mi preoccupa molto, sia dal punto di vista nazionale che internazionale, e riferendomi al secondo, le ultime dichiarazioni filo ucraine e la moderazione di Meloni non mi convincono. Contano le azioni e gli atti degli ultimi anni; i legami con le posizioni estremiste di Orban in Ungheria e di Vox in Spagna valgono più delle dichiarazioni di intenti. Il centrosinistra sta tentando di unirsi il più possibile per offrire un’alternativa forte e credibile. Alla fine decideranno gli italiani; dal canto mio, sto con i progressisti e per quanto possibile sono disponibile a dare una mano”.

Secondo lei cosa andrebbe integrato in questi programmi?

“I programmi sono un riassunto di progetti e idee, poi bisogna trovare soldi e volontà di trasformarli in realtà. Mi piacerebbe un fondo nazionale strutturale per l’abbattimento delle barriere architettoniche, con sussidi anche per le strutture ancora esenti e un’attenzione ai luoghi di socialità, oltre ad un aiuto nazionale per il rafforzamento dei consultori familiari e delle reti territoriali”.

Parliamo di disabilità. Come cittadina, quali richieste vorrebbe fare alla politica?

“Oltre al piano di cui parlavo prima ,vorrei un’attenzione ai giovani e alle donne con disabilità, attraverso programmi specifici di accompagnamento e inserimento lavorativo, e progetti che aiutino le famiglie nel “durante noi”, oltre ovviamente alla tutela piena dei caregiver familiari”.

Quali sono le difficoltà maggiori che ha incontrato in Italia, dal suo punto di vista?

“Scardinare i doppi pregiudizi che circondano le donne con disabilità, che se poi diventano madri, diventano tripli”.

Prevede un suo ritorno in politica?

“Se posso dare una mano, non mi tiro indietro”.

Speriamo quindi di veder mettere nero su bianco proposte concrete, fattibili e progettuali da parte dei vari schieramenti, altrimenti si tratterebbe di una gravissima, e forse cronica, mancanza di attenzione ai temi sociali più sensibili.

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VIDEO NOTIZIE – DANNI COLLATERALI – LE PICCOLE VITTIME INNOCENTI DI GAZA

Intervista al dottor Mohammed Awar Amer, medico all’ospedale di Gerico in Cisgiordania, sulla situazione umanitaria in Palestina, a seguito dei bombardamenti su Gaza da parte di Israele. Tra i morti anche tanti bambini, vittime innocenti di una violenza che nessuno, e soprattutto i più piccoli, dovrebbe mai subire.

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Direttore Stefania Catallo

Stefania Catallo, romana e fondatrice del centro antiviolenza Marie Anne Erize. Si occupa di storia orale e di diritti delle donne. Giornalista e scrittrice, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali "Evviva, Marie Anne è viva!" (2018, Universitalia), ha ricevuto il Premio Orsello nella sezione Società.

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Emilio Spataro, in arte Emyliù, attore, chansonnier, fotografo, grafico. Di origine calabrese cirotana, vive a Roma. Opinionista e Web Master del Magazine.

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Diplomato all'Istituto Alberghiero Michelangelo Buonarroti di Fiuggi (FR) - Dopo una lunga esperienza in Italia, e all'estero come chef per personaggi di rilievo, sia in casa che su yacht, nel 2013 si è trasferito a Londra, dove ha appreso nozioni di cucina multietnica continuando a lavorare come chef privato.

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Ho sperimentato il palco cimentandomi in progetti di Teatro Sociale tra il 2012 e il 2015 con testi sulla Shoa, sul femminicidio, sulla guerra. Il mio percorso teatrale è poi proseguito in autonomia quando ho sentito il desiderio di portare in scena testi scritti proprio da me.Tutti i miei scritti per scelta hanno

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