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Cosa vediamo, quando passiamo in macchina e loro passeggiano avanti e indietro o sono sedute sul ciglio della strada? Vestite a volte di nulla, sono divise per zone: a Roma est sono per lo più africane, mentre nelle altre zone della Capitale quelle dell’ex blocco sovietico vanno per la maggiore. Sono corpi in vendita, pezzi di carne da comprare a poco prezzo, vittime della tratta di esseri umani, persone che spesso facciamo finta di non vedere. Sotto il trucco è difficile dar loro un’età precisa, ma una cosa è certa: i clienti le vogliono giovani, anzi più lo sono e meglio è. E quando arrivano ai quaranta, diventano troppo vecchie e non le vuole più nessuno. Il mercato della prostituzione è questo: un grande giro di soldi sulla pelle delle donne. Cristina Golotta è l’attrice protagonista di “Marciapiede”, il corto di Christian Filippi tratto da una storia vera di prostituzione. Come ci ha raccontato: “Così andammo insieme (con il regista, n.d.r.) la sera prima di girare lungo Viale Palmiro Togliatti, e infine nel bar dove le prostitute si ristorano durante la notte fra un cliente e l’altro. È stato importante osservare l’espressione rassegnata dipinta sui volti di quelle donne, ragazze a volte giovanissime, ed è stato fondamentale entrare in quel bar per sentirmi una di loro, sentire lo sguardo degli uomini presenti all’interno che mi scrutavano interrogativi. Attraverso quegli sguardi ho compreso come si possano sentire queste persone il cui corpo non è più il contenitore della propria anima, ma l’oggetto attraverso il quale ci si può assicurare il soddisfacimento dei propri bisogni primari“. Abbiamo incontrato Golotta per parlare di prostituzione e della sua esperienza di attrice nel ruolo di una lucciola non più giovane.

Cristina Golotta, lei è stata la protagonista di “Marciapiede”. Quali sono state le emozioni che ha provato durante la lavorazione del corto?
“Marciapiede” è stato un vero e proprio viaggio, molto doloroso, dentro la carne e le emozioni di Liliana. Si dice più frequentemente che un attore interpreta un ruolo, ovvero sostiene una parte in un lavoro teatrale o in un film; nel caso di Liliana è più corretto usare il termine incarnare o impersonare, perché Liliana è un personaggio realmente esistito e presumibilmente esistente. Il regista, prima di scrivere la sceneggiatura, si è documentato ed ha raccolto testimonianze nella zona di Viale Palmiro Togliatti a Roma, tristemente nota per il gran numero di prostitute presenti nelle ore notturne e non solo. Lì ha conosciuto Liliana (il nome è di pura fantasia) ed è rimasto fortemente colpito dalla sua storia. Liliana ha 51 anni e, come tutte le sue colleghe del resto, paga lo scotto dell’età che avanza, fatica a trovare i clienti che si dirigono più felicemente verso le prostitute più giovani. E’ disperata, sa di non essere più piacente come nel passato ed accetta di andare con i clienti più promiscui, quelli scartati dalle sue colleghe, ben sapendo che la sua vita potrebbe essere messa in serio pericolo. Sperimenta la paura, la solitudine, il senso di inadeguatezza.. sa che quel lavoro che ha svolto per molto tempo non può più soddisfare i suoi bisogni primari, dovrà reinventare la sua vita ma non sa ancora come e se riuscirà nell’impresa. Vive una situazione di confino emotivo, psicologico e affettivo ma conserva sempre una grandissima dignità anche quando la sua esperienza umana le fa toccare i gradini più bassi. Incarnare questo personaggio è stata una delle esperienze più dolorose che mi sia mai capitato di vivere a livello professionale, ha lasciato dei segni profondi nella mia psiche e nel mio corpo. C’è una scena di violenza all’interno del corto che mi ha lasciata piena di lividi per una settimana e ricordo che a fine riprese ho faticato molto per ritrovare la giusta distanza da quel personaggio che aveva messo a dura prova il mio equilibrio psicofisico. Dovevo scrollarmi di dosso tutto quel dolore, che non va inteso in senso figurato, era un dolore fisico, psicologico, emotivo. Per sentirmi pronta per affrontare le riprese chiesi al giovane regista, il ventitreenne Christian Filippi, di poter visitare i luoghi nei quali lui aveva raccolto la documentazione fatta di svariate interviste. Così andammo insieme la sera prima di girare lungo Viale Palmiro Togliatti, e infine nel bar dove le prostitute si ristorano durante la notte fra un cliente e l’altro. È stato importante osservare l’espressione rassegnata dipinta sui volti di quelle donne, ragazze a volte giovanissime, ed è stato fondamentale entrare in quel bar per sentirmi una di loro, sentire lo sguardo degli uomini presenti all’interno che mi scrutavano interrogativi. Attraverso quegli sguardi ho compreso come si possano sentire queste persone il cui corpo non è più il contenitore della propria anima, ma l’oggetto attraverso il quale ci si può assicurare il soddisfacimento dei propri bisogni primari”.
Ritiene che il lavoro attoriale possa contribuire a diffondere una maggior consapevolezza di cosa significa avere una relazione sana?
“Per rispondere a questa domanda prendo volentieri a prestito una frase di Elio Germano “Bisognerebbe fare Teatro nelle scuole, perché l’esercizio di mettersi nei panni degli altri ci può far diventare una società migliore”. Cosa vuol dire mettersi nei panni degli altri se non accogliere l’altro nella propria vita, sospendendo il giudizio? Questo amplifica la propria capacità di entrare in empatia con tutto ciò che è altro da sè. Il Teatro impone poi, non solo di mettersi nei panni degli altri, ma di porsi in relazione con gli altri: il pubblico, i propri partner di scena o comunque i propri collaboratori. Il lavoro attoriale mostra tutte le possibilità di relazione, in un certo senso funge da specchio, quelle sane e quelle malate; così facendo contribuisce certamente a diffondere una certa consapevolezza in merito alle nostre possibilità di relazionarci con gli altri”.
Cosa vorrebbe dire a quelle donne che stanno vivendo una relazione nella quale emergono elementi pericolosi di criticità?
“La prima cosa che direi loro è che devono imparare a darsi valore, io me lo ripeto quotidianamente e penso di non essere neppure a metà di questo percorso. Spesso le donne sopportano rapporti cosiddetti malati o tossici perché pensano profondamente di non meritare di meglio. Purtroppo noi donne, e in questo non faccio eccezione, ci portiamo dietro un fardello molto pesante fatto di scarsa autostima e insufficiente fiducia nelle proprie possibilità. E’ un atteggiamento derivante dalla nostra storia, la storia delle donne, fatta di privazioni, di abnegazione, di rinunce. Dobbiamo cominciare a prenderci i nostri spazi: Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” sottolinea quanto quello spazio della stanza è sì uno spazio fisico, ma è al contempo uno spazio mentale fatto di tempo a disposizione da poter dedicare alla creazione, nonché di mezzi di sostentamento, ovvero una certa indipendenza economica che possa garantire la serenità necessaria all’espressione della propria creatività. Per concludere consiglierei a quelle donne di cominciare a ritagliarsi una stanza tutta per sé, per usare le parole della Woolf”.
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