Metti un hospice immerso nel verde a Brightcliffe, a due passi da una bellissima scogliera; metti otto adolescenti malati di cancro allo stadio terminale; metti che ogni sera si riuniscono per bere e raccontarsi storie del mistero: The Midnight Club è servito.
La serie creata da Mike Flanagan e in onda su Netflix, ambientata nel 1994, esplora il tema della morte e della malattia incurabile, viste con gli occhi di un adolescente. Se già una diagnosi di cancro sconvolge chi la riceve, è ancor più terribile quando il malato è giovane, molto giovane.
A Brightcliffe si va per trapassare come si desidera: niente cure a parte quelle per il dolore, niente obblighi, niente parenti. Potrebbe sembrare quasi un hotel di lusso a picco sul mare, se non fosse per i suoi ospiti. E per quelli che sono già andati, e che vengono ricordati attraverso le loro foto esposte nel lungo corridoio della struttura.
La malattia e la gioventù.
Durante le visite, è evidente la negazione delle famiglie dei ragazzi, che cercano di mostrare un lato speranzoso, di fare la faccia allegra davanti alla malattia scritta sul viso dei figli, cercando a tutti i costi di far finta di niente, perché fa troppo male guardare in faccia la realtà.
I giovani pazienti invece, seppur in modo doloroso, parlano del loro male eppure sembrano affrontarlo con più consapevolezza e coraggio. La loro forza è nel gruppo, non solo quello terapeutico al quale partecipano e che spesso finisce con alzate di voce, ma anche il gruppo che sostiene e non abbandona chi sta per morire.

E ogni giorno a mezzanotte si riunisce il Midniight Club, dove davanti a bicchieri improvvisati si beve e si brinda con questa frase:
“A quelli prima e a quelli dopo
A noi ora e a quelli oltre
Visibili o non visibili
Qui, ma non qui”.
E dopo il brindisi, si va di storie horror, raccontate a turno dai ragazzi.
Ogni puntata prende in considerazione un evento accaduto agli ospiti dell’hospice e ne racconta la vita precedente. In un modo o nell’altro, tutti hanno dei vissuti difficili alle spalle: c’è il ragazzo malato di AIDS abbandonato dalla madre religiosissima che vede nella malattia del figlio una punizione divina e un’onta. C’è la ex ballerina classica che a causa del cancro e di un incidente subisce l’amputazione di una gamba (Ruth Codd, alla sua prima esperienza come attrice, ma a cui la gamba destra è stata realmente amputata dal ginocchio in giù per via di un incidente). Poi c’è il giovane wasp campione di corsa, con la madre ex alcolista che lo sostituisce col fratello più giovane, negandone quasi l’esistenza, per non soffrire. Poi la musicista, con una famiglia ricca ma assente; la ragazzina giapponese orfana di padre; la ragazza nera adottata; il ragazzo indiano che non riesce a ricongiungersi con la famiglia prima che sia troppo tardi: insomma, tutte esistenze molto reali e proprio per questo, ancora più coinvolgenti per lo spettatore.

C’è speranza per questi ragazzi? Forse. Dipende dalla malattia e forse anche dall’esperienza di una paziente degli anni ’60 che era riuscita miracolosamente a guarire, dopo essere sparita per diversi giorni nei boschi circostanti la struttura, dove scorre una sorgente che si dice sia miracolosa.
Non vogliamo rovinarvi la sorpresa spoilerando troppo. E’ una bella serie, che affronta un tema doloroso e spesso tabù, ossia la morte in giovane età. Ci sarà da commuoversi, ma non solo di dolore.
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