Ungheria: le donne costrette ad ascoltare il battito del feto prima di abortire. Qual è la situazione in Italia?
Parliamoci chiaro: la questione è spinosa. Che non si debba ricorrere all’aborto come metodo contraccettivo, ha una sua base etica. Ma che dietro ad ogni interruzione di gravidanza ci sia una storia di donna, è la realtà. Perché, fatte salve le eccezioni che confermano la regola, abortire non è una passeggiata: né fisicamente e né psicologicamente. E chi pensa il contrario, sbaglia. Quindi Orban o chi per lui, sta facendo solo terrorismo psicologico, tentando di influenzare nella scelta personale delle donne, nella loro autocoscienza. Ma certo l’Ungheria non pare un modello di democrazia.
La legge 194.
A 43 anni dalla promulgazione della legge sull’aborto, sono molte le ombre sulla piena attuazione delle norme che posero fine alla mattanza causata dagli aborti clandestini. Quali cambiamenti sono necessari? E soprattutto, esiste ancora la libertà di decidere sul proprio corpo?
L’articolo 1 della legge 194 del 22 maggio 1978, che tratta delle nome per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza recita cosi:

“Art.1. Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non e’ mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
La legge, frutto delle strenue lotte delle donne e delle femministe, attuate con la sensibilizzazione sociale attraverso i tavoli pubblici, montati per strada e diventati sede di discussione pubblica, o con le raccolte firme, fino alle manifestazioni di piazza, poneva fine a una delle stragi nascoste del nostro Paese, ossia le morti per procurato aborto. Per averne un’idea, basta leggere “Isolina” di Dacia Maraini o ancora prima, “Le tradite” di Elisa Salerno, testi nei quali si narra come l’aborto clandestino fosse l’unica via di uscita per difendere la reputazione di una donna, che la società e la famiglia non avrebbero mai accettato come madre nubile e per la quale, oltre allo stigma sociale, sarebbe stata preclusa ogni attività lavorativa, anche la più umile, fatta eccezione per la prostituzione. Aborti che venivano operati con varie tecniche: dagli infusi di prezzemolo ai bagni ghiacciati, alle cadute “accidentali” dalle scale, ai ferri da calza inseriti nell’utero dalle cosiddette mammane, ovvero le levatrici improvvisate. Oppure in cliniche clandestine ma non troppo, dove i cosiddetti “cucchiai d’oro”, ovvero i medici abortisti, provvedevano all’operazione previo pagamento di cifre importanti. Di contraccezione neanche a parlarne: sebbene i preservativi esistessero già dall’epoca romana, non se ne faceva molto uso e di conseguenza la gravidanza, soprattutto se di una donna non sposata, era solo responsabilità di quest’ultima che aveva dimostrato, concedendosi, una amoralità conclamata.
Alla legalizzazione dell’aborto fece seguito l’apertura dei consultori, veri e propri punti informativi dedicati alle donne, dove oltre alla maternità responsabile, vennero istituiti gruppi di autosostegno e autocoscienza. Non si tratta però di preistoria, bensì di un passato recente che si è evoluto in un presente problematico, che rischia di mettere in pericolo il testo della legge e i diritti acquisiti.

Le straniere in Italia e le clandestine.
Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita diDonna, attiva nella Casa Internazionale delle donne di Roma, parla di dati non quantificabili per quanto riguarda il ricorso all’aborto delle straniere e delle donne clandestine. Le prime spesso si affidano alle mani di connazionali abusive oppure, come nel caso di alcune centrafricane e sudamericane, assumono dosi massicce di Cytotec, un farmaco prescritto per l’ulcera che provoca l’aborto, a rischio di gravi emorragie. Le clandestine invece non vengono sottoposte al test di gravidanza: allo sbarco si fanno le analisi del sangue e altri tipi di indagini, ma non si esegue un controllo sulla situazione ginecologica. Fatto gravissimo, secondo la Canitano, in quanto moltissime clandestine vengono da situazioni di stupro e di abuso, perpetrati sulle coste nordafricane prima della loro partenza.
Cosa fare, allora?
Argia Simone, femminista storica e presidente dell’associazione “Socialmente Donna” ha dato vita, assieme ad altre attiviste, al centro antiviolenza “Maria Manciocco” a Labico, in provincia di Roma. “Ritengo che la legge 194 sia in pericolo per una serie di questioni. Primo l’obiezione di coscienza, che è agita da tutte le figure preposte all’interruzione di gravidanza, a partire dai medici dei servizi pubblici, che per il 70% si dichiarano obiettori” ha dichiarato la Simone. “Il secondo pericolo è rappresentato dall’obiezione di struttura, vale a dire che il 40% dei reparti di ginecologia non eroga il servizio previsto dalla legge. Inoltre, vanno considerati i tentativi posti in essere dalle organizzazioni pro vita, che propongono ciclicamente l’abrogazione e la modifica della 194. L’obiezione di coscienza nel SSN è, a mio avviso, illegale perchè lede il dirito di autodeterminazione dalla donna”.
E per quanto riguarda i consultori? “Anche per i consultori c’è una crisi profonda; bisogna rilanciarli e rafforzarli, tenendo conto che molti di loro sono stati chiusi o trasformati in semplici ambulatori” continua Argia Simone. “Soprattutto, bisognerebbe adeguarli agli standard della legge, che prevede un consultorio ogni 20 mila abitanti, mentre ad oggi se ne conta uno ogni 40 mila, con una disomogeneità e un divario numerico tra le varie zone del Paese”. Consultori che, secondo la presidente di Socialmente Donna “ vanno rimodulati, per adeguarli all’evoluzione della società e tenendo conto delle diverse identità di genere e dei diversi tipi di famiglia, oltre che potenziati nel personale, che è andato sempre più a dimnuire ache a causa del turn over. Pertanto, è necessaria una forte azione di rilancio e rafforzamento di queste strutture”. Dello stesso parere è anche Rossella Provvisionato, psicologa e socia fondatrice del centro “Lo spazio di Mariele Franco”, laureatasi con una tesi sul diritto all’aborto, che sottolinea: “Il vero problema è l’obiezione di coscienza, che lascia le donne in balia di loro stesse durante l’interruzione di gravidanza in ospedale. Non sono rari i casi di medici che si sono rifiutati di prestare le cure necessarie a donne che erano in preda a emorragie, giustificandosi con un “signora sono obiettore e non posso toccarla. Bisogna intervenire, e subito”.
La questione, in realtà, sarebbe molto semplice. Quelle che vogliono portare avanti la gravidanza, devono avere il diritto di farlo, così come quelle che vogliono abortire. Non è etico né costituzionale cercare di convincere le donne a portare avanti la gravidanza, come spesso si fa. Sarebbe come entrare in un centro per la fertilità per convincere le donne ad abortire. Oppure, per i medici obiettori, sentirsi in pace con la coscienza perché non si è prescritta la pillola abortiva. Si tratta di sofismi morali di grande ipocrisia.

La parola all’avvocata.
Angela Pinti, avvocata in Civitavecchia con lunga esperienza nel contrasto alla violenza di genere e nel bullismo, ha all’attivo la collaborazione con una delle maggiori associazioni femminili della città.
Esiste una norma di legge attraverso la quale il medico obiettore può rifiutarsi di prestare assistenza alla donna durante l’interruzione di gravidanza? Se non interviene in caso di pericolo di vita per la donna, è punibile dal punto di vista penale?
“La legge 194 oltre a garantire il diritto all’aborto delle donne, prevede anche il diritto del medico di non praticare l’interruzione di gravidanza ove obiettore. Diritto che, tuttavia, non sussuste in caso di pericolo di vita per la paziente. Ritengo che rifiutarsi di intervenire, o di assistere una donna in fase di interruzione della gravidanza, nel caso di grave pericolo per l’incolumità sia penalmente rilevante dal punto di vista giuridico, per una serie di reati che possono rientrare nell’omissione di soccorso e aggravarsi a seconda del caso. Laddove il medico obiettore dovesse intervenire chirurgicamente nell’ospedale per effettuare l’interruzione di gravidanza in situazione di urgenza, la sua obiezione di coscienza viene revocata immediatamente dall’organo preposto”.
Stefania Catallo
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